domenica 19 aprile 2009

Goodwin che vai. J. Goodwin, L'albero dei Giannizzeri

 
 
 

 
 
Avrò avuto sì e no dieci anni- quando ancora leggevo di nascosto i libri gialli che mia madre e mia nonna, gialliste incallite, mi avevano tassativamente proibito, terrorizzate dall'idea che 'prendessi il vizio'- beh, dicevo, avrò avuto sì e no dieci anni quando mi sono innamorata follemente di Archie Goodwin. Che fosse vero amore e non una semplice infatuazione letteraria lo si poteva dedurre da una serie di sintomi inequivocabili: imparavo a memoria le sue battute, nei giochi con le amiche mi chiamavo lilirouan ed ero addirittura riuscita a superare l'innata avversione per il latte, riuscendo a trangugiarne qualche sorso di fila, nella ferrea convinzione che mi sarei dovuta preparare a piccole dosi, per essere pronta per l'incontro con quello vero. Da lì in poi, il criterio di selezione di tutti i malcapitati di sesso maschile che mi capitavano a tiro si basava sul grado di somiglianza con l'amato Archie- sottile ironia,battuta pronta, grande abilità nel ballo e fascino da vendere. Sapevo, ovviamente, che sarebbe stata una strada lunga, anche perché la mia immaginazione associava tali qualità ad uno sguardo magnetico e ad addominali da tartaruga e non c'era verso di farle cambiare visione, ma ero convinta che, alla fine, i miei sforzi sarebbero stati premiati e avrei finalmente impalmato quanto di più archiegoodwiniano offrisse il mercato.
Fu così che sposai nero wolfe- o meglio: quanto di più nerowolfiano offrisse il mercato, in materia di intelligenza sociale e girovita.Grugniti al posto delle battute pronte, sarcasmo al posto dell'ironia, manicaretti al posto del latte ( secondo mio marito, è letale cenare con un cappuccino), camicie gialle e orchidee a profusione. Ma, dopo avere speso un po' di tempo a cercare di capire come mai trovassi infinitamente più divertente passare il mio tempo a far progetti con una specie di pachiderma ingrugnito, anziché con un ballerino charmant, decisi che non era il caso di approfondire e chiusi lì il discorso, per sempre.
Cioè, per sempre.... per sempre fino all'altro ieri quando, nella mia solita ronda da Feltrinelli, mi imbatto in un libro scritto da tale "goodwin". Vederlo e comprarlo è statto tutt'uno- e che bella sorpresa, leggerlo! Tutto d'un fiato, nonostante le descrizioni e gli intrighi, non sempre facili da dipanare.
Dunque, a scando di equivoci, Goodwin è l'autore e l'unico punto in comune con Archie è che anche Yashim- questo è il nome del protagonista-è un investigatore. Solo che è turco, vive in una modesta stanza piena di libri e tappeti in un vicolo di Istanbul, dipende dal sultano e dalla valide e, quel che più conta, è eunuco. Tuttavia, al pari del capo di Archie, anche Yashim ama cucinare ed il libro èpieno di ricette, profumi, sapori che non ti abbadonano anche dopo che lo hai terminato. I giallisti doc non perdoneranno al creatore del personaggio un plot troppo intricato, forse un po' inverosimile, trattato con scarso rispetto per le regole del genere- e se proprio devo giudicare da giallista doc, non posso che concordare con loro. Ma se amate le ricostruzioni storiche affidate alla vivacità della vita quotidiana, se avete sognato su Istanbul, se vi perdete in una scrittura che solletica i sensi, allora questo libro fa per voi.
"Era stata una mattinata difficile. Yashim andò all'hammam, dove lo insaponarono e lo massaggiarono e rimase a lungo nella stanza calda prima di tornare a casa con indosso gli abiti freschi di bucato. Finalmente, dopo aver valutato la questione sotto ogni aspetto, nel tentativo di individuare una pista, si rivolse a quella che gli appariva, da sempre, l'alternativa migliore.
Come fai a trovare tre uomini in una cttà medievale decadente e nebbiosa di due milioni di abitanti?
Non ci provi neanche.
Ti metti a cucinare"
buona serata

le ceneri di angela

 

 
Mio padre ha fatto la fame. Prima, durante e dopo la guerra. Colpa di un padre scapestrato, di una madre solo pronta a farsi compatire, di una famiglia come tante, allora, in un'epoca in cui il quarto comandamento veniva declinato sopra ogni cosa- botte, umiliazioni, sacrifici e sfruttamenti. Io e mia sorella, per contro, siamo figlie del boom economico, di quegli anni Sessanta ottimisti e riformisti, di un benessere collettivo, di un'epoca che ha portato a ritenere come diritti acquisiti quelli che, solo trent'anni prima, erano lussi da signori. Siamo nate in una clinica, abbiamo frequentato le scuole private più esclusive, non abbiamo mai dubitato che non saremmo arrivate alla laurea, con la stessa sicurezza con cui non dubitavamo che avremmo fatto le ferie, avremmo avuto il motorino, avremmo preso la patente. Intorno a noi c'era un mondo dorato, lo stesso che vedevamo nelle case dei nostri cugini, dei nostri amici, dei nostri compagni di scuola. L'unico affondo nella miseria era a Natale, quando, dopo il pranzo, mio padre cominciava a ricordare la sua infanzia. Il punto di partenza era sempre lo stesso- ora è Natale tutti i giorni, una volta, invece...- ma dove si sarebbe finiti, nessuno lo sapeva. Erano storie corali, con papà che cominciava e i nonni e i suoi fratelli dietro, a rinfrescargli la memoria, ad aggiungere particolari, a ricordare nomi e strade e visi e luoghi, e noi che stavamo a sentire, rapiti, da bambini, scocciati, da ragazzi, inteneriti e arrabbiati da adulti, mentre ci passavano davanti storie di miseria, di sopportazione, di soprusi, tutte accomunate dal disperato imperativo di dover sopravvivere, giorno dopo giorno. Non credo che saremmo riusciti a resistere a tanto dolore, però, se non fosse stato per il tono con cui venivano raccontate queste storie: la misura, la leggerezza, l'ironia e, soprattutto, lo sguardo pulito e senza malizia che avevano allora, quando, bambini, scappavano dalle bacchettate del maestro di scuola per andare a raccogliere i muscoli alla diga, o si attaccavano ai camion per farsi trainare con le biciclette, o si soffiavano sulle mani ghiacciate dal rigore del freddo del mattino, quando, prima della scuola, portavano in equilibrio sulla testa brioche calde da distribuire alle varie latterie- e guai ad assaggiarne una. Lo stesso sguardo- nostalgico, innocente, ironico- l'ho ritrovato leggendo “le Ceneri di Angela”, il libro più famoso di Frank Mc Court, che racconta la sua triste infanzia irlandese: “ naturalmente, è stata un'infanzia infelice, perché sennò non ci sarebbe gusto. Ma un'infanzia infelice irlandese è peggio di una infanzia infelice qualunque e un'infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora”. Prima di rendermi conto di avere in mano un capolavoro, ero già tornata indietro, ai pranzi di Natale e alle briciole sulla tovaglia di Fiandra, con papà che raccontava e gli zii che gli andavano dietro, e non c'erano più confini fra un'infanzia irlandese ed una italiana, e non perché i bambini siano gli stessi dovunque, ma perché identica era la stessa lezione di dignità di questi racconti. Una dignità che resiste agli assalti della miseria e dell'ignoranza, della superstizione e della crudeltà, una dignità che arriva dritta al cuore con fitte dolorose e pungenti, così come pungenti e dolorosi sono i tanti perché che si levano dalle pagine del libro – perché a loro, perché questa miseria, perché questa ingiustizia. La risposta è contenuta in ogni pagina del libro, sin dalle prime righe ma, come nei libri gialli, ci si arriva alla fine, commossi e inteneriti dalle vicende del piccolo Frank e del microcosmo che gli gira intorno- ed è una risposta piena di speranza, di fiducia nella bontà e nella solidarietà, in valori che travalicano tempi e luoghi e che sovvertono i parametri tradizionali, insegnandoti che miseria e povertà non sono sempre sinonimi, che la nobiltà d'animo è davvero ciò che conta di più e che ogni tanto,in un'epoca dove la letteratura è violentata nella grammatica, nei contenuti, nello stile, spuntano ancora dei grandi capolavori.

Ditelo con i fiori








L'altro ieri la creatura si è persa in centro, mentre era andata a fare shopping con un adulto a cui l'avevo affidata. Sorvolo sul perché e il percome- a tutela dei miserevoli resti del mio sistema nervoso-ma vi garantisco che i miei 5 minuti di paura li ho provati, eccome. Lei era senza cellulare e senza soldi ( li aveva lasciati nella giacca, in custodia alla persona con cui era prima di entrare in camerino a provarsi un paio di jeans) e c'è stata una frazione di secondo in cui io sono davvero andata in tilt. Per fortuna, mia figlia ha più buon senso di quanto sua madre gliene riconosca normalmente , perché nel giro di pochissimo mi ha telefonato da un numero di cellulare sconosciuto, dicendomi che era nel bar sotto l'ufficio di mio marito e di andare a prenderla lì.

Quando sono arrivata, c'erano con lei tre baristi e un mezzo tossico, che continuava a farfugliare battute sull'episodio. Io mi sono profusa in ringraziamenti verso il personale del locale, ho congedato freddamente il tipo al bancone e, appena fuori, ho attaccato con la solfa del " guarda che cosa ti poteva capitare, non hai visto che gente che c'è in giro" e altre non dissimili variazioni sul tema, tutte espressamente riferite al cliente del bar.

Sul momento, mia figlia ha prudentemente taciuto ma, quando si è accorta che , sbollito il nervoso, ero di nuovo avvicinabile, ha provveduto ad un accurato "errata corrige": dopo aver aspettato invano, per un quarto d'ora, la persona che era con lei, resasi conto di non saper come fare a tornare a casa, prima ha cercato un vigile e poi, non trovandone in giro, ha iniziato con la trafila dei negozi, dicendo ogni volta che si era persa e chiedendo di poter telefonare alla mamma.

Da via XXV aprile a Piazza Dante non ha trovato nessuno che glielo abbia consentito, neppure una cassiera della Rinascente che, con il ricevitore in mano, ha chiuso sul nascere l'argomento, replicando che non avevano telefono. Alla fine, è arrivata nel bar dove mio marito consuma tutti i caffè delle sue lunghe giornate lavorative e talvolta anche le pause pranzo e dove,quindi, siamo ben noti. E lì, per fortuna, ha trovato non i baristi, sia chiaro, ma il tossico che, di fronte all'ennesimo rifiuto, le ha lasciato il suo cellulare e le ha permesso di chiamarmi.

Sono passate 48 ore dal fatto e non riesco ancora ad affrontarlo con calma, da tante sono le reazioni a catena che mi si sviluppano in testa. Ma, oltre all'indignazione per il menefreghismo della gente e l'inquietudine per i risvolti che un episodio in sé banale come questo avrebbe potuto avere, ho un'amarezza sorda, legata ai pregiudizi , alle etichette e alle paure figlie della diversità e dell'ignoranza, che sono un fardello che mi porto dietro troppo spesso e di cui mai come oggi sento il peso e la vergogna.

Non so bene da cosa dipenda, se dall' educazione cattolica o dalla formazione giuridica o dalla mia personale e completa balordaggine, ma io se non riparo, non quieto. E siccome non so come fare a riparare, nel senso che non so dove andare a cercare questo signore e neppure mi ricordo che faccia abbia, infrango la prima regola che mi sono imposta nella gestione di questo blog ( "mai di domenica" ) e porgo qui le mie scuse pubbliche, contrite e sincere, insieme ad un grazie immenso, come solo quelli targati "core de mamma" sanno esserlo.

E,tanto per riparare fino in fondo, ho recuperato una vecchia ricetta di famiglia, dal sapore antico, di quelle che si preparavano una volta all'anno, se andava bene, e che, per questo, erano destinate alle grandi occasioni. Per me ha un significato tutto speciale, legato all'infanzia e alla nostalgia per cose e persone che non ho più, e non è un caso che finora non vi abbia messo a parte di questa preparazione segreta, nonostante occupi un posto speciale nell'elenco dei cibi del cuore. Lo faccio stasera, perché l'occasione è arrivata, e sono felice di poterla condividere con voi.

Sotto con i cucchiaini, allora!!!

Marmellata di petali di rosa


200 g di petali di rosa non trattati
600 g di acqua
500 g di zucchero semolato
il succo di mezzo limone



Doverosa premessa: i petali di rose non trattati non sono quelli delle rose che si comprano dal fioraio o, peggio, al supermercato o, peggio ancora, dall'ambulante al semaforo. Dovete recuperarli da un'amica o una parente col giardino, sulla cui fedeltà cieca ai dogmi del biologico potete mettere la mano sul fuoco. Quando ero piccola io, per esempio, avevamo un cespuglio gigante, che cresceva spontaneamente, soprattutto in altezza (... io da bambina credevo che le rose crescessero sugli alberi..) ed era da lì che mia nonna si riforniva per gli sciroppi e per le conserve: se esistono ancora prodigi del genere, sono l'ideale per queste preparazioni.

Una volta procuratavi la materia prima, bisogna poi procedere alla pulizia dei petali. Teoricamente ( ma molto, molto teoricamente: avete idea di quanti petali ci vogliano, per farne due etti???), bisognerebbe passarli ad uno ad uno con uno strofinaccio umido, ma se li fate transitare velocemente sotto l'acqua va bene lo stesso. L'importante è che non presentino tracce di terra, polvere o altro, perché va bene che è tutto biologico, ma trovarsi in bocca il cadavere di un ragnetto non fa piacere a nessuno.....

Dopodiché, bisogna tritarli grossolanamente (i petali, non i ragnetti..) con una mezzaluna, metterli in una capace terrina , bagnarli con il limone, aggiungere 200 g di zucchero e, con le mani, cominciare a mescolarli bene, senza timore di schiacciarli, anzi: una volta, questo passaggio si faceva nel mortaio, con il pestello, proprio per far sprigionare al massimo il profumo dei fiori, per cui, dateci dentro con lena, fino a quando non avrete ottenuto una bella poltiglia.

A questo punto, prendete una pentola dal fondo spesso e preparate uno sciroppo, con l'acqua e lo zucchero rimanente: i tempi di bollitura precisi non li so, perché si è sempre andati ad occhio, ma considerate tre o quattro minuti al massimo: non deve diventare troppo denso, ma rimanere ancora piuttosto liquido. Si aggiunge la poltiglia allo sciroppo, si mescola fino a quando gli ingredienti non si sono perfettamente amalgamati e poi, a fuoco bassissimo, si procede con la cottura, come per una normale marmellata, togliendo la schiuma, se è il caso e mescolando spesso.

La marmellata è pronta quando avrà raggiunto la consistenza del miele: ci vorrà una mezz'oretta, ma, se non siete sicuri, potete sempre fare la prova piattino ( o voi del corso sulle conserve, vi ricordate come si fa? si versa una goccia del composto su un piattino e, se quando lo si inclina, la goccia non scivola precipitosamente per terra, la marmellata è pronta).

Spegnete il fuoco e NON invasate subito: contrariamente alle altre preparazioni, bisogna aspettare una decina di minuti, prima di metterla nei barattoli ( con queste dosi, 4 da 250 g): d'altronde, questa è una conserva solo nel nome, nel senso che non dura tantissimo ed è meglio tenerla in frigo.

Dicono che sarebbe perfetta sui formaggi, ma siccome per me è un sapore dell'infanzia, quando questi abbinamenti erano di là da venire e la massima trasgressione era rappresentata dalle fette biscottate, io continuo a mangiarmela con pane e burro. ed è una tale goduria, che penso proprio che continuerò così...
buona domenica
alessandra