sabato 30 maggio 2009

i numeri primi - e chi ce li ha per davvero....

di Alessandra

Stavolta, giuro, non ci ero cascata. Anzi, avevo resisito alla stragrande: nessuna concessione alle centinaia di sguardi languidi e obliqui che ammiccavano, moltiplicati alla enne, dalle vetrine delle librerie, nessuna debolezza di fronte agli osannanti commenti della critica, nessun cedimento, se non un'aria di commiserazione, davanti agli stupiti " ma come, non lo hai letto??" che mi hanno perseguitato per tutta l'estate. Anche l'annunciata vittoria dello Strega non solo non mi aveva smosso di un millimetro, ma anzi, aveva semmai reso più forte il mio proposito che "la solitudine dei numeri primi" non avrebbe varcato la soglia di casa mia. Troppe fanfare per un'opera prima, troppe parate da grandi occasioni, troppo bello il titolo, troppo bella la copertina, troppo bello lui, insomma: puzza di bidone lontano un miglio.
Ho resistito fino alla settimana scorsa, quando me ne sono ritrovata una copia sulla mia scrivania in ufficio- mossa strategica di una collega tenace e determinata, ricorsa all'extrema ratio una volta constatato che parlare di questo libro con me o con un muro avrebbe prodotto la stessa soddisfazione.
E' finita che l'ho letto e- udite udite- sono pure arrivata fino in fondo: la qual cosa colloca di diritto quest'opera nell'ambita classifica dei libri così e così, trattandosi indubbiamente di un pregio, visto che, espletati finalmente tutti i doveri in materia libresca, posso finalmente concedermi alla lettura solo come ad un piacere- e se il libro non è buono, come avrebbe detto il buon manfredi, che piacere è???
A scanso di equivoci, i pregi di La solitudine dei numeri primi si fermano qui. Nel senso che oltre un tenue interesse per la trama, non c'è altro. O meglio: manca tutto il resto, a cominciare dalle qualità essenziali per cui un romanzo è un romanzo e non un trattato scientifico, un sunto di psicologia spicciola, una lista della spesa.
E' tutta l'estate che sento parlare di "grande intuizione", di "titolo geniale", di "impostazione grafica accattivante" e robe del genere, come se fossero queste le qualità da perseguire nella stesura di una storia, dimenticando invece completamente che un romanzo è fatto anzitutto dalla scrittura, dalla tensione narrativa, dal ritmo dei dialoghi e -soprattutto- dall'introspezione dei personaggi, in un dosaggio calibrato - di tempi, di stacchi, di tinte- che qui, purtroppo, non c'è.
La scrittura, anzitutto, è piatta: nessuna increspatura sul piano del racconto, nessun affondo nell'analisi dei personaggi, nessuno stacco verso l'alto. I dialoghi sono una mezza presa in giro (stamattina sono buona), tutti modulati sulla gamma del "sì" e del "no", senza neppure lasciare spazio ai "forse " e ai "perché", onde evitare di oltrepassare la soglia della assertività tipica del trattato e sprofondare nella inquietante, immensa, emozionante, tormentata varietà dell'intelligenza del dubbio. Anche le scelte lessicali si appiattiscono sul resto, creando così l'impressione di un moto rettilineo uniforme che, se è coerente con la formazione scientifica dell'autore, non giova affatto alla componente emozionale del romanzo. Che, infatti, non c'è. In pratica, è tutto un susseguirsi di storie tragiche, di incidenti, di traumi, di abbandoni, di autodistruzioni reciproche che scorre via liscio come l'acqua, una macabra lista della spesa, appunto, che si spunta con lo stesso coinvolgimento con cui si mettono le varie cose nel carrello, da tanta è la prevedibilità degli eventi.
Se dunque alla fine si resta con l'amaro in bocca, non è per merito di Paolo Giordano,ma per il dispiacere di aver visto sprecate tutte queste intuizioni in un prodotto di così scarso livello. Per amor di metafora, è come affidare l'incarico di fare una torta con la farina del mulino, le uova della gallina dalle piume d'oro, il burro della malga del nonno di Heidi e altre prelibatezze a uno che magari ne conosce a menadito la composizione chimica e calorica, ma che, all'atto pratico, sbaglia dosi, tecnica di assemblaggio e tempi di cottura.
Se mai non fossi stata sufficientemente convinta di questo giudizio, me lo ha confermato la lettura successiva- o meglio: quella all'interno della quale si è inserita La Solitudine : io leggo stile matrioska, un libro dentro l'altro- vale a dire L'amore non guasta, di Jonathan Coe. Ora, che io ami Coe di un amore viscerale, assoluto, potente e passionale è cosa nota e non è il caso che vi tedi ulteriormente, tessendone il peana. Però, mai come questa volta ho avuto la certezza di trovarmi di fronte ad uno dei pochi veri grandi della letteratura contemporanea, seppure leggendo un'opera che non eguaglia le altre sue più famose: potenza della lettura parallela di due opere contrapposte per valore letterario, che ha permesso un progressivo disvelamento dei pregi dell'una e dei difetti dell'altra, in modo naturale, quasi involontario, mi verrebbe da dire, e per questo più implacabile ed impietoso.
Giordano parte da primi attori a cui non si può non voler bene: sono due vittime della vita, del tutto incolpevoli, che non hanno saputo trovare altra reazione se non quella di farsi del male, con un autolesionismo lucido, implacabile e feroce e che, quando la vita dà loro l'occasione di unire le loro solitudini, non sanno farlo, bloccati come sono da quel numero che di solito si inframmezza ai numeri primi e che qui è metafora dell'incapacità di vivere. In altri termini, Giordano muove da una materia ruffiana, per cui il lettore ha già la lacrima in tasca alla seconda pagina e la tranquillità di sapere già da che parte stare, visti i colpi di accetta con cui l'autore scolpisce i suoi personaggi, tutti i buoni di qua e i cattivi dall'altra parte. il punto di arrivo, però, è deludente, nel senso che il massimo della carica emotiva si registra nelle prime pagine, quando cioè ci si affeziona per forza ai due protagonisti, e poi scema via via in una calma piatta, ucciso dai difetti di cui sopra.
Coe cominica invece da comparse, persone che non hanno nulla per cui valga la pena di scrivere un romanzo e che, anzi, a dire il vero, sono pure un po' antipatiche, presentate da subito nei loro difetti più fastidiosi, più imbarazzanti, più odiosi. le loro storie sono fatte di responsabilità personali, di rifiuti consapevoli, di compromessi calcolati ed è impossibile, all'inizio, affezionarsi a qualcuno di loro, da tanto sfuggono a qualunque stereotipo, buono o cattivo che sia. Il bene e il male sono concetti esorbitanti, inarrivabili per la mediocrità di certe vite e, per giunta, sono nascosti, miscelati, inquinati l'uno nell'altro e per quanto le vicende siano semplici e la narrazione distaccata si percepisce da subito che di tranquillizzante, qui dentro, non c'è nulla. Ed è qui che si innescano le emozioni- e sono una reazione a cetena, in un continuo crescendo, al termine del quale i personaggi non sono più figure sbiadite e sfocate, ma emblemi dell'ingiustizia sociale dell'imperscrutabilità del destino, del male di vivere. Come si sia potuti arrivare a sentirsi così- scossi, amareggiati, turbati- partendo da mosse in apparenza innocue è un mistero che ogni volta mi affascina e di cui Coe conosce a menadito ogni segreto, visto che lo padroneggia con tale maestria. Ed è in questo che sta il suo pregio: nel saperti prendere alle spalle, con un andamento lento, nevrotico, a tratti anche un po' allucinato, sorretto da una scrittura minimale e potente al tempo stesso, sempre trattenuta sul filo della tensione da un'ironia tagliente e dolorosa che ti illude di mantenere le distanze, mentre in realtà ti spinge dritto al centro della vicenda. E non c'è bisogno di artifici, di operazioni editoriali, di bagarre pubblicitarie, di streghe e maghi e formule algebriche: basta solo averci dei numeri, quelli veri.
a mercoledì
alessandra