venerdì 29 agosto 2014

blogstory: 3...2...1...LA PASTA FROLLA DI NONNA VAN PELT!





 qui






In principio, fu Nonna Van Pelt: e fu la più terribile di tutti. 
Nell'ordine, l'ho detestata/ammirata/amata/adorata, con quell'adorazione tutta speciale che si riserva quando si scopre quante e quali marce in più finiscano per nascondersi dietro modi scontrosi e difficili. Mia nonna era la donna più intelligente che io abbia mai conosciuto, con l'handicap di una nascita sbagliata: se fosse nata un secolo dopo, l'avremmo vista sui giornali, in mezzo ai politici o ai medici o alle stiliste di grido. Avendo avuto la mala sorte di venire al mondo nel 1913, dovette adattarsi a quella trafila di cliché a cui allora era impossibile sottrarsi, a maggior ragione se donna e pure sfortunata-  e che, neanche a dirlo, non le appartenevano: la casa, il matrimonio, i figli e la conseguente acquisizione di ruoli che, inevitabilmente, la inchiodarono ad una vita che, in tempi diversi, non avrebbe mai scelto.
Perchè stonata, rispetto alle sue aspettative.
E sottotono, rispetto alle sue doti.
Il suo senso etico, ancora più alto di un senso del dovere elevato alla enne, le impose di non ribellarsi: non fu impedita a farlo, semplicemente lo scelse.
Adattandosi ad una vita sottotono e ricercando spazi personali in quello che più rimpiangeva e più la interessava, vale a dire lo studio.
Mia nonna era la secondogenita di una famiglia benestante, almeno fino a quando non compì 12 anni: in quell'anno, suo padre, l'unico sostentamento alla famiglia, morì di un male misterioso in pochi giorni e la sorella primogenita venne adottata dallo zio che, al tempo delle mille lire al mese, ne portava a casa tremila. Mia prozia Teresa potè diplomarsi, prendere la patente, guidare la macchina, fare scelte indipendenti, mentre mia nonna- che di tutti era la più intelligente e la più dotata-  si trovò a dover aiutare la madre a mantenere le sue sorelle e quel fratello maschio che, per ironia della sorte, essendo nato per ultimo, divenne l'ennesima bocca da sfamare e non il possibile erede della professione del padre.
I suoi studi si interruppero alla sesta elementare: da piccola, ridevo come una matta e facevo ridere le mie amiche, quando svelavo il titolo di studio di mia nonna. Da grande, mi si stringeva il cuore.
Perchè in mezzo avevo visto una donna che cercava il riscatto dalla sua ignoranza- e lo cercava, questo sì, nell'unico modo che le apparteneva. Facendo studiare i figli, anzitutto. E sfruttando qualsiasi occasione la vita le offrisse, per ampliare la sua cultura.
Quando dico che ho avuto una nonna che leggeva un libro al giorno, non sto esagerando. Anzi, probabilmente mi sto tenendo bassa, perchè non includo la quantità di riviste, di quotidiani, di documentari che divorava, di continuo. Negli anni, aveva sviluppato un approccio raffinato agli argomenti che la interessavano, la Storia su tutti e se mai ho avuto la possibilità di ampliare i miei orizzonti e di confrontare i miei punti di vista, è da mia nonna che l'ho imparata, su quel tavolo della cucina in cui io ripetevo a voce alta le lezioni e lei chiosava, chiedeva, approfondiva.
E, naturalmente, controbatteva.
Perchè, sia chiaro, se mai ci fu una Van Pelt in famiglia, questa era lei.
Scorbutica, impettita, testarda, irremvibile.
Le sue certezze erano incrollabili- e questo valeva anche per la cucina: gli gnocchi si fanno col pesto, la Pasqualina si fa a Pasqua coi carciofi, con le bietole il resto dell'anno- e la frolla, è un "tre-due-uno"
E ditemi voi, se non aveva ragione...


LA PASTA FROLLA
TRE-DUE-UNO 



Una premessa veloce.
Al mondo, esistono più ricette di frolla che gocce nel mare. 
E la sottoscritta le ha provate (quasi) tutte. 
Alla fine, son tornata al punto di partenza, con un distinguo- e cioè, che questa frolla è quella che preferisco per le torte  con ripieni grassi (a base di creme, di formaggi, di panna e ovviamente, di latte e di uova). Personalmente, la uso anche per le crostate con la marmellata perchè, essendo poco dolce, si equilibra bene con la farcitura: ma questo perchè nelle marmellate di casa mia lo zucchero si sente. 
Per il resto, seguo le ricette, via via che le scelgo: per cui, aspettatevi di trovare qui sopra decine di varianti. 
Ma la frolla del mio cuore, quella che non tradisce, che mette tutti d'accordo e che d'istinto suggerisco a chiunque mi chieda una ricetta collaudata è quella che segue...

per uno stampo da crostata del diametro di 26 cm 
300 g di farina 00
200 g di burro freddo
100 g di zucchero semolato
1 uovo intero
la scorza grattugiata di un limone
un pizzico di sale
burro e farina per ungere lo stampo

Sulla spianatoia, setacciate la farina e unite il burro a pezzetti. Incorporatelo alla farina schiacciandolo lievemente con la punta delle dita (mia nonna diceva "come se stessi contando le palanche, i soldi, cioè) e appena si sono formate delle grosse briciole, aggiungete lo zucchero, l'uovo, il limone e il sale. 
Lavorate l'impasto il meno possibile, meglio se con le mani fredde. Bagnatele sotto l'acqua del rubinetto e asciugatele bene, prima di impastare- e vedrete che in un attimo otterrete una palla compatta. 

ed ora, i trucchi (i pasticceri fatti e finiti o sedicenti tali sono pregati di astenersi dalla lettura di quanto segue)



1. sarebbe meglio impastare a mano, sempre: l'unico vero rischio che presenta la preparazione della frolla è che il burro si surriscaldi (in gergo: che si bruci): non a caso, è prassi farla riposare in frigorifero. Tenete presente, però, che se il burro "si brucia" non c'è riposo che tenga. Ovvio che la salvate, lasciandola una notte in frigorifero: ma la friabilità è diversa. Non solo: lavorandola a mano, potete ridurre al minimo i tempi di riposo- qualche volta, stendo e inforno, senza nessun passaggio in frigo, per dire- e avere sempre la possibilità di capire quando "cogliere l'attimo"- quando cioè è il momento giusto per smettere di lavorare.
Se usate il mixer, il burro deve essere freddissimo- non di freezer, ma di frigo. Sorvegliate la lavorazione e, naturalmente, mettete in frigo.

quale farina? quelle che preferite, purchè siano povere di glutine. Ultimamente siamo tornati alle farine grezze, che sciorinano una gamma di sapori inedita. Proprio per questo, consiglio di andarci piano, a seconda del tipo di farcitura che si vuole usare. Coi frutti di bosco, per esempio, la farina grezza sta divinamente. Con i ripieni al limone, ho qualche dubbio. In ogni caso, è sempre meglio mischiare, in percentuali variabili a seconda dei vostri gusti

quanto burro? dal burro dipende la friablità dell'impasto. Date le premesse, è ovvio che maggiore è la quantità di burro, più difficile sia impastare la frolla: ma una volta che avete preso la mano, è tutta discesa. E una frolla friabile e burrosa è un buon modo per riconciliarci col mondo.
La frolla all'olio, nelle prossime puntate

quanto zucchero? lo zucchero è responsabile della croccantezza. A me la frolla piace friabile, non croccante, quindi ne metto poco. Aggiungo anche che mai come nel caso dello zucchero bisogna tener conto del ripieno: si mangia tutto in un colpo solo, la frolla e quello che contiene-e un boccone troppo dolce copre tutto il resto.

quale zucchero? tendenzialmente, quello semolato. A volte, uso lo zucchero di canna, in una frolla rustica, mentre lo zucchero a velo lo riservo per alcuni biscotti. Ma col semolato mi son sempre trovata benissimo, quindi non cambio.

l'uovo: in teoria, bisognerebbe indicare il peso. Ce la vedete, mia nonna, a pesare le uova? Lei ci metteva un tuorlo, di quelli delle uova di una volta, quando le galline andavano a sentimento e non a misure standard. Io ci metto un uovo intero, se medio, un tuorlo solo, se grande.

la scorza di limone: non chiedetemi perchè, perché non saprei darvi nessuna spiegazione: ma se non metto la scorza del limone, ottengo una frolla meno friabile. Sarà suggestione, mettiamola cosi. Ma se non ho limoni, cambio dolce. E la metto sempre, anche quando fa a pugni col ripieno: magari solo una grattigiatina, ma guai a dimenticarla****

*** arrivata ora email pietosa da lettore, chimico di professione: l'acido citrico neutralizza il glutine. Quindi, non solo la scorza ci va, ma sarebbe ancora meglio aggiungere direttamente qualche goccia di limone. 

quanto riposo? dipende da quanto lunga è stata la lavorazione. Tendenzialmente, io faccio riposare dopo che ho steso in teglia. Il motivo, è nel paragrafo seguente.

stendere la frolla col mattarello: nei libri di ricette, di solito c'è scritto di tenere la frolla in frigo per un'oretta, poi di manipolarla un po', per renderla nuovamente lavorabile e poi di stenderla col mattarello sulla teglia, farcire e infornare.
In casa mia, i sogni si infrangevano sul mattarello.
Nel senso che 2 volte su 3 non mi riusciva di tirare la frolla e metterla in teglia in un colpo solo, senza bisogno di aggiunte.
Parlo al passato perché, da quando sono in campagna, ho un tavolo di marmo che si sta rivelando l'alleato più prezioso che potessi avere: è sempre freddo, quindi è l'ideale per la lavorazione della frolla.
Ma già lo so, che quando tornerò a casa, saremo alle solite.
Per cui, io faccio così: lavoro il minimo la frolla e la stendo subito nella teglia, aiutandomi col mattarello fin dove riesco e rappezzando a mano, per il resto. POI- e solo poi, metto in frigo.

cottura: su questo, son talebana. 170°C, modalità ventilata- e la tolgo dal forno quando è ancora chiara. Leggermente brunita, sarebbe l'espressione esatta, ma il leggermente va inteso in senso estremo: appena un velo.
Poi ci sono le cotture in bianco e le varie eccezioni. Ma la mia regola è che la frolla deve cuocere il meno possibile. E riposare almeno qualche ora, prima del consumo.

problemi in cottura: di solito è uno- ed è quello che la frolla non aderisca allo stampo, ma si rattrappisca un po': è perchè nn la si fa riposare nello stampo. Se avete fretta, potete passarla un quarto d'ora nel freezer. Altrimenti, da mezz'ora a tutto il santo giorno, se avete tempo. Per la cottura in bianco, son necessari altri accorgimenti: ma direi che per oggi, la lenzuolata può bastare ;-)

mercoledì 27 agosto 2014

#blogstory2: I TAGLIOLINI AL LIMONE




 Volevo un gatto nero






Secondo la infallibile programmazione che dovrebbe scandire le pubblicazioni di questo nuovo blog, i Tagliolini al limone sarebbero dovuti comparire qui sopra l'altro ieri. Cioè lunedì, cioè il giorno dopo la domenica che, almeno qui nel Masonshire, è ancora il giorno deputato per i pranzi vecchio stile, quelli che prevedono la tovaglia buona e un numero di portate superiore a uno. In più, domenica scorsa la creatura ci avrebbe degnato della sua presenza e, visto che coi tortini dal cuore morbido mi era andata male, tanto valeva provarci con un altro dei suoi piatti preferiti. 
Che è quello che vedete nella foto.
Che però è stato preparato per la cena del martedì.
Perché per il pranzo del domenica si è perso il gatto.

Siccome prevedo un certo disorientamento nei lettori, provo a compattare in poche righe gli eventi che hanno portato all'ampliamento del nucleo familiare, con l'ingresso di un micino di 57 giorni, rigorosamente nero, rigorosamente vivacissimo, rigorosamente capace di ridurre all'imbecillità i tre membri che compongono questa famiglia, con l'insospettabile appendice del vicinato tutto, veterinario compreso.

La colpa, sia chiaro, è tutta del marito. 
Perchè, sia altrettanto chiaro, la sottoscritta,  gatti,  non ne voleva. 
Neanche cani, ad essere sinceri. O canarini, tartarughe, conigli, cocorite e tutto quello che va sotto la dicitura di "bisognoso di cure e attenzioni". 
Non è che una la chiamino Van Pelt per il buon cuore, intendo. 
E se mai aveste ancora qualche dubbio, date un'occhiata a quegli scheletri ingialliti e agonizzanti che altrove finiscono nei rifiuti organici, mentre a casa mia si ficcano nei vasi del salotto buono e si chiamano piante. 
Ma non avevo fatto i conti con le crisi di mezza età dell'ingegnere. 
E con gli argomenti persuasivi delle mie amiche- che in fondo un gatto è sempre meglio della badante ucraina della suocera, ultimo antidoto alle crisi di mezzetà in voga fra i mariti della mia generazione. 
O al personal trainer dalle lunghe ciglia, che ultimamente è un must. 
Insomma, a farla breve, ho ceduto. 
Ho allestito lettiere, trasportini, cuscini di varie fogge e misure, ho sacrificato scatole  ikea a quadretti verde salvia che tanto si intonavano con l'armadio della nonna e, per finire, ho arrancato alla guida della Classe A, con tutto l'armamentario nel sedile posteriore e il marito in preda alle nausee su quello di fianco. 
Al terzo incrocio "bucato", sono iniziate le doglie. 
Prima dell'ultima contrazione, ho trovato la strada.
Dopodiché, è stata tutta discesa, con questo amore di gattino che si affila le unghie sui miei polpacci, si appende ai braccialetti mentre scrivo al pc e si comporta come da manuale del gatto perfetto-ossia, gioca, mangia, dorme e, naturalmente,  si nasconde. 

In teoria, è tutto facile. 
In pratica, è un'altra cosa. 
Perchè la domenica, qui nel Masonshire, c'è un gran via vai di gente, che si moltiplica in modo esponenziale se, per disgrazia, c'è il sole. 
Allora, è tutto uno spalancarsi di porte, di conversazioni alla finestra, di bucati da stendere e da ritirare, di fiori da potare, di fagiolini da raccogliere, mentre, nel frattempo, ci si informa sulle condizioni del vicinato
"E suo marito, come sta?"
"E la mamma, si è ripresa?"
"E il bambino, va a scuola a settembre?"
"E il gatto... IL GATTO DOV'E'?"

Ve la faccio breve. Così breve, che vi dò solo i tasselli dell'intero mosaico. 
In primis, se avete avuto notizia di una specie di Erinni che vagava scarmigliata per tutto il Masonshire, al grido di "Winnieeeeeeeee- Winnieeeeeeeee*- vieni dalla mamma", quella ero io. 
Lo stesso vale per il crescendo di minacce- dal divorzio al suicidio, "che tanto all'inferno ci finisco comunque, per abbandono di felino"- che ho proferito, mentre piangevo afflosciata sul gradino della cucina. 
E lo stesso vale per il de profundis recitato sul pranzo della domenica, consumato con gli avanzi della sera prima, in un mesto silenzio. 
Durato fino a quando il gatto non si è materializzato, esattamente al centro del pavimento, sotto il tavolo. 
Sul dove si possa essere nascosto, sono aperte le scommesse: per parte mia, vi posso assicurare che ho guardato dappertutto e lo stesso han fatto il marito e la figlia. 
Quello che è certo è che, subito dopo la ricomparsa, è andato dritto dalla sua ciotolina, piena fino all'orlo, e si è fatto la mangiata più epocale della sua storia. 
"Fatemi capire" ha commentato la figlia, guardando desolata la sua porzione di pasta al forno scotta della sera prima. "Lui che è la causa del nostro pranzo saltato, mangia come un pascià e noi siam qui a finire gli avanzi?"
"E' il gatto prodigo" ho detto. 
E chiudiamola qui.

* propriamente, il vero nome del gatto sarebbe Sir Winston Van Pelt-Gennaro. Ma siccome il suddetto nome, per esteso, supera di qualche centimetro l'effettiva lunghezza del suo titolare, per ora lo chiamiamo Winnie. Che intanto, non risponde neanche a quello.



I TAGLIOLINI AL LIMONE

I tagliolini al limone sono un piatto difficilissimo da preparare. 
Un po' come la cacio e pepe: che uno legge due ingredienti e zero cottura e pensa subito di potercela fare, salvo poi chiedersi "dove ho sbagliato????" davanti ad un pappone colloso e informe.
Qui, uguale: tre ingredienti, ma un procedimento insidiosissimo, che si apprende solo da buoni maestri, da costante pratica e, particolare non trascurabile, da una lunga permanenza in Costiera amalfitana, dove questo piatto è nato e si è tramandato di generazione in generazione, assieme a tutti i trucchi perchè riesca alla perfezione. 
Uno dei quali è toccato anche a me. 
Complice la mamma di un mio alunno, che proveniva da quelle zone e che aveva deciso di manifestarmi la sua gratitudine, regalandomi una ricetta di famiglia, ad ogni bel voto che davo al figlio. 
Mai ho maledetto la mia integrità morale come quando preparo questo piatto, per inciso: ad ogni forchettata, mi mando un accidente. 
Ma tant'è: donna tutta d'un pezzo sono e quindi le ricette recuperate non son più di tre. Ma ciascuna, ne vale centomila. E questa, da sola, un milione.
Perchè con questo segreto, riuscirete ad ottenere dei tagliolini al limone cremosi come gli originali e non quelle robe da unti e bisunti che tanto ci piacciono per strada, ma nel piatto, per favore, no.
Per cui, mettetevi comodi e tendete l'orecchio...

per 4 persone
500 g di tagliolini freschi
200 ml di panna fresca liquida
60 g di burro
2 limoni (succo e scorza)
sale grosso, q.b.
Parmigiano Reggiano grattugiato
pepe nero (facoltativo)

Versate 800 ml di acqua in una pentola capiente, accendete il fuoco a fiamma media e fatevi sciogliere il burro. Poco prima che prenda il bollore, aggiungete il succo filtrato dei limoni e salate. 
Appena bolle, buttate i tagliolini e fateli cuocere per qualche minuto: vedrete che assorbiranno gran parte dell'acqua. In ultimo, aggiungete la panna: proseguite la cottura per un minuto o due, poi versate l'intero contenuto della pentola direttamente nella zuppiera, senza scolare la pasta. Aggiungete una generosa grattugiata di scorza di limone e servite. 
I commensali aggiungeranno a piacere Parmigiano grattugiato e pepe nero macinato all'istante. 


  • Come avrete capito, il segreto sta nelle dosi del'acqua di cottura. La ricetta della signora diceva "il doppio del peso dei tagliolini" e così ho sempre fatto in questi anni: tuttavia, negli ultimi tempi, ho ridotto di circa un quarto: su mezzo kg di tagliolini, calcolo 800 ml di acqua, anzichè un litro. Se non dovesse risultare sufficientemente brodoso, si possono sempre aumentare le dosi di panna alla fine. Finora non mi è mai capitato, però...

  • Altro segreto: la pasta deve essere fresca. Assorbe di più, tutto qui. Ma visto che il trucco è questo, tanto vale agevolarne la riuscita
  • I limoni devono essere di qualità eccelsa. Dò per scontato che non debbano essere trattati, ma se fossero di coltura biologica VERA (leggasi: del vostro giardino o di quello del vicino) sarebbe ancora meglio. Per quanto concerne le dosi, ho riportato quelle originali, ma non siete tenuti a rispettarle: se i limoni sono molto agri, due sono tanti, per dire. Di solito, parto col succo di uno solo e poi assaggio e mi regolo. dove invece è bene abbondare è nella grattugiata di scorza: usate una grattugia Microplane, per avere dei risultati eccellenti. 
  • Burro e panna ci vanno: potete ridurre il primo, anche della metà, mentre i 200 ml di panna finali ci vogliono tutti. D'altronde, questo non è un piatto dietetico e ridurne le calorie sarebbe l'equivalente di una bestemmia in chiesa. Se siete di quelli che demonizzano i latticini, cambiate ricetta. E magari anche blog. 
  • Altra cosa: la panna "da cucina" non abita qui. 
il trucco di Giulietta: quando l'acqua bolle, prima di buttare i tagliolini, prelevatene un mestolo o due e teneteli da parte: se i tagliolini dovessero assorbire poco liquido, vi eviterete l'effetto brodoso; se dovessero assorbirne troppo, avrete la risorsa per allungarlo, in cottura. 

..a chi ama la bilancia in cucina: andare a occhio, in questa ricetta, può essere fatale. E se ho capitolato pure io, è tutto detto.


    praticamente, è incorporata nel piatto. Anzi, mettete in preventivo che vi venga richiesto di continuo, in barba alle sacre regole della composizione del menu e che qualcuno vi presenti a stimati professionisti come "quella dei tagliolini al limone", in barba ai titoli di cui pensavate di potervi fregiare, almeno in certe occasioni. 
    se optate per la monoporzione, assicuratevi che nel piatto rimanga un po' di condimento: non scolateli troppo asciutti, cioè. E' meglio servirsi di un mestolo e di arrotolare lì le porzioni su una forchetta, in modo da raccogliere anche un po' di "sugo" con cui irrorare i tagliolini. 
    alle erbette non si dice mai no: il basilico, in questo caso, è perfetto.


    lunedì 25 agosto 2014

    TORTA SENZA: SENZA FARINA, SENZA LIEVITO, SENZA FRUSTE, SENZA LUCE, SENZA CONNESSIONE E PURE SENZA...





    il soggetto della foto. 
    Che, a ben pensarci, è la prova migliore della bontà di questa torta nata come un ripiego, dopo che un fulmine si è abbattutto sulla centralina del Masonshire, all'indomani dell'apertura di questo blog e della promessa solenne con cui mi impegnavo a festeggiare il ritorno a casa della creatura con quegli orribili tortini al cioccolato dal cuore morbido, che lei ama tanto quanto sua madre detesta. 
    Li detesto al punto da non aver mai memorizzato non dico la ricetta per intero, ma neppure una vaghissima sembianza di ingredienti-dosi-procedimenti, quel tanto che basta per cavarsela anche in situazioni di emergenza come quella dell'altra sera.
    Quelle in cui il solito mantra - "intanto, c'è internet"- non poteva funzionare. 
    E così, sono passata al piano B, vale a dire la  solita vagonata di libri e riviste che mi segue ovunque vada, un po' come le nuvolette di polvere dell'amico della Van Pelt.
     Ma di tortini, nessuna traccia. 
    L'unico tenue filo di speranza era legato ad una non ben precisata "Chocolate French Cake" che, a occhio, poteva sembrare una via di mezzo fra la Tenerina e 'sti benedetti tortini. 
    Per cui, mi son messa all'opera e, nell'ordine: 
    1. ho dimenticato la farina: nella ricetta originale ci va. Poca, grosso modo un cucchiaio, ma c'è. E quindi, ecco soddisfatto il requisito del senza farina.
    2. ho provocato un corto circuito con la spina delle fruste elettriche che, come in tutte le torte senza lievito, dove è importante incorporare aria, sono l'unico attrezzo veramente fondamentale. Ergo, senza fruste.
    3. ho proseguito al buio ( ovvero: senza luce), assemblando ingredienti alla cieca (e mai metafora fu più azzeccata), benedicendo la buona stella che, una tantum, mi aveva indotto a pesarli prima del disastro. 

    Alla fine, è venuta fuori una torta di gran lunga superiore alle aspettative, sia quelle contingenti, sia quelle generali: prova ne è che in 4 semplici mosse la creatura ha dato scacco al dolce, chiedendo scusa ad ogni morso "ma una torta così buona, mamma, non l'hai mai preparata". 
    Ragion per cui, in barba alla connessione che non c'è e alla programmazione che ci sarebbe anche stata, pubblico immediatamente la ricetta qui sopra, togliendomi subito l'obbligo del contributo alla "cucina del senza" che imperversa da qualche tempo a questa parte. Anche perchè più "senza" di così...




    FRENCH CHOCOLATE CAKE

    per 6 persone

    115 g di cioccolato fondente, a pezzetti
    55 g di burro, a pezzetti
    3 uova medie, tuorli e albumi
    85 g di zucchero semolato
    un pizzico di sale
    alcune gocce di estratto di vaniglia
    20 g di farina
    zucchero a velo per decorare


    stampo a cerniera del diametro di 18 cm, rivestita di carta da forno, leggermente unto
    forno: modalità statica, 180°C

    Sciogliete a bagnomaria il cioccolato e, appena inzia a sciogliersi, aggiungete il burro a pezzetti, mescolando finchè non si è sciolto completamente anch'esso. Togliete dal bagnomaria e fate intiepidire. 

    Nel frattempo, in una terrina piuttosto capiente, montate i tuorli con lo zucchero fino a quando saranno soffici e spumosi: a questo punto, versate il cioccolato e il burro fusi nel composto montato e amalgamate con delicatezza, con un cucchiaio di metallo. Unite le gocce di vaniglia e mescolate.

    Setacciate la farina ed il sale e  incorporateli delicatamente al composto. 

    Montate immediatamente gli albumi e incoroporate anch'essi al composto, in tre tempi, mescolando dal basso verso l'alto, per evitare che il composto smonti. 

    Versare tutto nella teglia ed infornare in forno caldo per 25 minuti. La torta gonfierà e formerà una crosta sottile, durante la cottura, che si creperà e si affloscerà appena fuori dal forno.

    Lasciate raffreddare nello stampo per una decina di minuti, poi sformate, rovesciando delicatamente la torta sul piatto da portata. Eliminate con altrettanta delicatezza la carta da forno, spolverate con zucchero a velo e servite. 


    • Ho usato uno stampo a cerniera quadrato, di 18 cm per lato, quindi più grande di quello previsto: la torta è venuta comunque piuttosto alta, circa 2,5 cm. La cottura è stata leggermente inferiore (circa 20 minuti)
    • Non ho oliato la carta da forno, ma ho versato direttamente l'impasto
    • Il cioccolato era un buon fondente, al 60% di cacao. Se preferite un gusto più cioccolatoso, aumentate la percentuale
    • La consistenza senza farina era accettabile: tutte le operazioni che iniziano con "delicatamente" sono state svolte senza nessun problema
    • La "traduzione" nel linguaggio del senza glutine è agevole, visto che si tratta di sostituire una quantità esigua di farina, in un impasto che cresce solo grazie all'aria che incorpora durante la lavorazione
    • L'unico segreto/difficoltà per la buona riuscita di questo dolce è mantenere la massa montata, specialmente quella degli albumi: incorporateli poco alla volta, con un po' di pazienza, con il solito movimento dall'alto verso il basso e ruotando il recipiente di 45° ogni volta (faccio prima a farvi vedere come si fa...)


    • agli amanti del cioccolato, senza esclusione
    • a chi è intollerante ai lieviti
    • a chi ha poco tempo
    • a chi è alle prime armi: munitevi di un paio di fruste elettriche e non ce ne sarà per nessuno. 

    • trattandosi di una torta dalla consistenza morbida, può chiudere alla grande una cena. 
    • servitela già porzionate, nei piatti da portata, tagliata a fette triangolari o a quadrati, accompagnata con una pallina di gelato alla vaniglia- per gli astemi- o al whisky o al caramello salato.
    Sybil Kapoor, Simply Baking- National Trust- Uno dei milioni di motivi per cui amo il popolo britannico si chiama National Trust: è l'equivalente del nostro FAI, con la non lieve differenza che le sezioni locali lavorano con una maggiore presenza sul territorio, gestendo piccoli negozi e organizzando perio Uno dei milioni di motivi per cui amo il popolo britannico si chiama National Trust: è l'equivalente del nostro FAI, con la non lieve differenza che le sezioni locali lavorano con una maggiore presenza sul territorio, gestendo piccoli negozi e organizzando periodicamente tè di beneficenza. Inevitabile che si sviluppasse anche un'editoria gastronomica di spessore che contempla ancheil recupero di ricette antiche, inserite a buon diritto nel patrimonio da tutelare. Altrettanto inevitabile che tutti questi libri appesantiscano gli scaffali delle librerie della sottoscritta, compreso l'ultimo nato da cui è stata tratta questa ricettadicamente tè di beneficenza. Inevitabile che si sviluppasse anche un'editoria gastronomica di spessore che contempla ancheil recupero di ricette antiche, inserite a buon diritto nel patrimonio da tutelare. Altrettanto inevitabile che tutti questi libri appesantiscano gli scaffali delle librerie della sottoscritta, compreso l'ultimo nato da cui è stata tratta questa ricetta.




    questa ricetta è stata rifatta da
    Manuela
    Gianni (con namelaka- qui la versione all'arancio)
    fate un giro da loro, per i loro suggerimenti!

    venerdì 22 agosto 2014

    #BLOGSTORY: LA FOCACCIA


    Fabrizio de André- Creuza de Ma


    La focaccia è una e una sola- ed è quella che si mangia a Genova. 
    (Tanto per iniziare subito in modo conciliante)
    E' quella che si puccia nel cappuccino, a colazione.
    Quella che si mangia per strada, con tacchi e perle e borsette fatte scivolare sul'avambraccio, che maniman si ungono e non è cosa.
    Quella che i milanesi d'estate ci fanno pranzo e cena.
    Quella che è cotta quando sotto è pallida e sopra è croccante.
    Quella che, col salame e il vino bianco, è il punto di accordo di una città altrimenti  divisa e di un popolo mugugnone, che ha da ridire su tutto, ma su questo no.
    Quella con "gli occhi"o gli "ombelichi" o coi buchi.
    Quella che fende l'aria di Genova, una scia di calore fra il salmastro del mare e le folate di vento e che ti conduce al forno più vicino, in barba a impegni, scadenze e diete del lunedì, che un etto di focaccia è un piacere che non riusciamo mai a negarci.
    Quella di cui avevo parlato tempo fa, nel vecchio blog, rispolverando una ricetta del nonno fornaio dei caruggi e che ora riprendo, in chiave riveduta, corretta e pure un po' più coraggiosa, senza indulgenze ai gastrofighettismi o alle mode del momento.
    Perchè tutto si può dire, della focaccia, tranne che sia una roba modaiola o gastrofighetta: la focaccia è la focaccia. 
    Tutto il resto, ve lo lasciamo.

    A FUGASSA

    Ingredienti per una teglia rettangolare di 40 x 30 cm circa

    250 g di farina 00
    250 g di farina 0
    dai 280 ai 320 ml di acqua
    1 cucchiaino di malto
    dai 10 ai 15  g di lievito di birra fresco*
    2 cucchiai d'olio extravergine
    10 g di sale fino


    poi:
    2 cucchiai di olio extravergine
    mezzo bicchiere d'acqua (circa 50 ml)
    una piccola manciata di sale grosso

    • Attivate il lievito in poca acqua tiepida, in cui avrete fatto sciogliere un cucchiaino di malto: coprite e fate riposare in luogo tiepido, fino a quando sulla superficie si formeranno le caratteristiche increspature. 
    • Setacciate la farina sulla spianatoia, aggiungete il lievito sciolto nell'acqua ed iniziate ad impastare, unendo gli altri liquidi: la variazione della quantità di acqua dipende dal potere di assorbimento della farina, che è sempre una variabile. Però, per esperienza, più la pasta è idratata, più la focaccia è buona. 
    • Fate così: iniziate impastando tutta la farina con 250 ml di acqua (compresa quella dove avete fatto sciogliere il lievito) e l'olio: quando avrete ottenuto un impasto liscio, aggiungete la restante acqua poco alla volta, continuando ad impastare. Con un po' di pratica, vi accorgerete al tatto quando il vostro impasto sarà idratato al punto giusto: tenete comunque presente che i 280 ml indicati sono una quantità ragionevole, per un impasto soffice. 
    • Il sale fino va nell'impasto: potete metterlo all'inizio della lavorazione, badando a che non entri in contatto diretto col lievito, durante oppure alla fine. L'importante è che non ve lo dimentichiate, perchè anche se la superficie è cosparsa d sale grosso, la pasta deve essere comunque sapida
    • Fate lievitare in una terrina, coperto, per un'ora. dopodichè, versate l'impasto direttamente nella teglia, unta con abbondante olio extravergine. Non usate il mattarello, ma spianate l'impasto con la punta delle dita, stirandolo per allargarlo. Non preoccupatevi se questo non vi obbedirà al primo colpo e tenderà a restringersi: sono gli scherzi della maglia glutinica... Lasciate riposare qualche minuto, poi riprendete, sempre lavorando coi polpastrelli.
    • Alla fine, lasciate lievitare fino al raddoppio. Accendete il forno a 230 °C, modalità statica e preparatevi a fare gli ombrisalli o gli oeuggi, vale a dire i caratteristici buchini, nei quali si depositeranno l'olio, l'acqua e il sale, determinando quelle "chiazze" bianche e un po' gelatinose che contraddistinguono la nostra focaccia. I veri fornai vanno giù decisi, usando non la punta delle dita, ma la seconda falange: lavorano "di taglio", cioè, non dal basso verso l'alto come comunemente si crede e come facevo anch'io. Il motivo è che in questo modo si creano buchi più profondi, senza il rischio che si rompa l'impasto: ovvio che se usate la forza di venti braccia probabilmente ammaccate anche la teglia, ma ci siamo capiti.
    •  Ed ora, il discorso salamoia: fino a pochi anni fa, annegavo la focaccia nell'acqua e la facevo cuocere lì dentro. Il forno era consenziente, ottenevo un risultato soddisfacente, eravamo tutti contenti. Poi, all'improvviso, il mio forno ha iniziato a cuocere diversamente-e io ho iniziato a capire cosa intendevano dire le mie amiche, quando lamentavano che l'acqua non si fosse asciugata e la parte inferiore della focaccia fosse rimasta molliccia. Da qui, ho ridotto notevolmente le dosi della salamoia: faccio i buchi, verso un bel po' di sale grosso, aggiungo mezzo bicchiere d'acqua a temperatura ambiente, irroro con abbondante olio (sempre extravergine, sempre di ottima qualità) e poi inforno, a forno caldissimo (230°C, il mio) per 15- 20 minuti. Sempre nel mio forno, verso la fine della cottura devo girare la teglia, per avere una coloritura uniforme in superficie, ma questa è l'unica eventualità che vi si potrebbe presentare: quando è pronta, è così: 
    • A questo punto: lasciatela raffreddare pochi secondi, poi staccatela dal fondo, sollevandola con l'aiuto di un coltello. Usatelo come leva, non per tagliare o, peggio, per raschiare: se avete unto bene la teglia, la focaccia dovrebbe sollevarsi senza problemi. Tagliatela a pezzi e consumatela subito o comunque nel giro della giornata. Altrimenti, è meglio congelarla, nei sacchetti per il freezer: noi la facciamo scongelare a temperatura ambiente e poi la scaldiamo nel tostapane, meglio che nel forno.


    Blog Notes

    Per quanto concerne gli ingredienti, ora lo so che mi inimico mezza blogsfera dicendo che la Manitoba noi non sapevamo nemmeno che cosa fosse- e l'altra metà asserendo che il lievito madre è una masturbazione mentale. Però, non c'è sacro testo che prescriva diversamente e-soprattutto- non c'è ragione per non prestargli fede: perchè calare questa ricetta nel quotidiano, in una realtà che impone che si sfornino sleppe di focaccia dall'alba al tramonto, in una città dove le lievitazioni sono difficili per definizione, significa dover andare sul sicuro, specialmente per quanto riguarda il tipo e la dose di lievito da usare. Senza contare che la focaccia è buona "fresca", forte di quella fragranza che si accompagna all'appena sfornato: al massimo, può resistere dalla mattina alla sera, ma per quanto gradevole possa risultare, non c'è paragone con quella appena uscita dal forno.
    Invece, per quanto riguarda le dosi del lievito di birra, potete fare come vi pare: appurato che minore è la quantità di lievito usata e maggiori sono i tempi di lievitazione (con tutti i benefici del caso), siete liberi di abbassare fino a pochi grammi. 
    La focaccia che vedete nella foto è stata preparata con 12,5 g di lievito di birra (ossia, un cubetto da 25 g tagliato esattamente a metà) ed una lievitazione complessiva di 3 ore e mezza, in piene brume del Masonshire. Il giorno prima ne avevo preparata una veloce, con 25 g di lievito (e se mai qualcuno ha rischiato di morire, è stato per indigestione); una volta o due, ho sperimentato i 4-5 g, con ottimi risultati. Tendenzialmente, comunque, sto attorno ai 12-15 g, tenendo conto del fatto che vivo sul mare, a Genova, o nella pioggia, in campagna e anche questo fa: ma in tutti i casi, vien fuori una focaccia che è una meraviglia. E stavolta, ho pure i testimoni...


    Shelfie

    Il sacro testo di riferimento è come la nostra focaccia, cioè uno ed uno solo- e chi già lo possiede converrà con me sulla perentorietà del giudizio.
    Sergio Rossi, Focaccia-  Sagep Editori, Genova 2013



    questa ricetta è stata rifatta da
    Rosaria(con preimpasto)
    Elisa
    Valeria (con lievito madre e Bimby)
    fate un giro da loro, per i loro suggerimenti e le loro modifiche!



    giovedì 21 agosto 2014

    OPS...!!!! I BLOG AGAIN...

     

    Contro tutte le previsioni
    Contro ogni buon senso
    Pure un po' controvoglia, a dirla tutta.
    Epperò, si riparte.
    Controvento
    Controcorrente
    E, ovviamente, contromano.
    Fate ancora a tempo a scendere, per dire...