domenica 27 dicembre 2015

CRACOVIA- IL DIARIO DI VIAGGIO


No, non  sono a Cracovia, ma a Singapore. 
E- per la cronaca- sono pure appena tornata da Bangkok.
Ma a Cracovia c'è una cara amica che ha bisogno di dritte- e quale migliore occasione per recuperare il diario di viaggio di una delle più belle vacanze di questi ultimi anni? Era l'agosto del 2011, un periodo di luce a rischiarare il buio di un annus horribilis e Cracovia era stata il coronamento di questo sprazzo di serenità. 
Lo è tuttora, nel ricordo: per cui grazie a chi mi permette di recuperare questa tranche de vie e, nel contempo, di tornare ad aggiornare il mio blog.
Mettete questa città fra le mete del 2016, se ancora non ci foste stati, perchè merita davvero. 

Qui i link alle diverse giornate
primo giorno: Stare Miasto
secondo giorno: quartiere ebraico (Kazimierz)- centro storico- Podgorze (Schindler Museum)
terzo giorno: Auschwitz- Birkenau
terzo giorno: Czestochowa
quarto giorno: La città vecchia
quarto giorno: Le Miniere del sale
quinto giorno: Nova Hutah- Cattedrale di Santa Maria (interno)- Centro Storico

Cracovia, diario di viaggio- ultimo giorno



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E' l'ultimo giorno, ma siccome l'aereo parte in serata, facciamo finta di niente e ci dedichiamo alla solita maratona, che intanto domani è domenica e il tempo per riposare lo troviamo lì. Il programma prevede un'escursione a Nowa Huta, il sobborgo di Cracovia voluto dal Partito Comunista come modello di una città ideale e che oggi è meta di tour divertentissimi, a bordo di Trabant o di pulmini dell'ex regime e l'appuntamento finale, come le star, a bere la vodka al Lenin bar. Io sono straesaltata e già mi vedo immortalata in foto cult sulla portiera dell'auto che fu il simbolo del PCI dei tempi che furono, ma il marito non è della stessa idea. E siccome non ci sono taxi nei paraggi, in una Cracovia che dà il buongiorno al sabato mattina in una veste per noi nuova, con le strade semivuote e le serrande dei negozi ancora abbassate, capitoliamo e prendiamo un tram.



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Chissà perchè, di Nowa Huta ci eravamo fatti un'idea tutta diversa- vale a dire, di un piccolo e brutto quartiere operaio, sorto ai margini della grandiosa acciaieria (Huta, appunto) da cui il sobborgo prende il nome. Niente di più sbagliato. Immaginatevi una sorta di grand boulevard declinato in chiave comunista, moltiplicatelo per dieci ed ecco che avrete un quadro molto più simile all'originale di quanto non fosse il nostro.

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D'altro canto, ci sta: nelle intenzioni degli urbanisti del regime, Nowa Huta sarebbe dovuta essere l'ennesima riproposizione della città ideale, in versione mignon. E quindi, grandi viali, contornati da spazi verdi curatissimi, con tanto di laghetti e piste per il jogging e la bicicletta, enormi architetture ibride fra lo stile austero del comunismo e quello più lieve del rinascimento polacco, scelto come espressione più tipica della città di Cracovia, l'immensa acciaieria (oggi dismessa ed assorbita dall'ente del turismo per farne un distaccamento ed un museo sulle attività che un tempo vi si svolgevano), e poi negozi, supermercati e bar, a corredare di tutto quello che poteva essere utile alla realizzazione di una utopia urbana. Ma c'era davvero proprio tutto?

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In realtà, no. Mancava una chiesa. Il che, per una città come Cracovia, che di chiese ne possiede ben 144, suonava come una nota stonata. Per quanto si lamentassero, però, i nuovi abitanti del quartiere non riuscivano ad aver ragione delle loro richieste. Il regime, infatti, era inflessibile: vi diamo la casa vicino al posto di lavoro, strade ariose, viali immensi, tutto quello che vi serve per essere felici qui sulla terra- e voi vi lamentate, perchè aspirate ad una cosa inutile come essere felici in cielo? - era la replica abituale alle loro richieste, nella speranza che, prima o poi, queste pretese moleste cessassero, una volta per tutte. Ma non avevano fatto i conti con il designato parroco di Nowa Huta, un giovane dallo sguardo fiero e dalla tempra d'acciaio, che en passant di nome faceva Karol e di cognome Wojtyla, il quale tanto bregò, sia in veste di semplice sacerdote, prima, sia come arcivescovo di Cracovia, poi, che alla fine non solo la chiesa ci fu, ma fu pure proporzionata al resto degli edifici del quartiere. Grande, bella e ariosa. E, contrariamente al resto, sempre piena. Tanto che oggi fa persino un po' effetto, in un quartiere che manca di vitalità, con la presenza della fabbrica vuota che incombe un po' dappertutto, trovare la chiesa piena di fedeli in adorazione, con tutta che non è neppure domenica e non ci sono festività religiose in calendario.

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Alzi la mano il primo che ha proposto la divisione fra “turisti” e “viaggiatori”. Così, gli dico chiaro e tondo quello che penso di questa emerita boiata, che ha trasformato un'occupazione privilegiata come il viaggiare in una sorta di rincorsa per equipararsi al più insulso e stereotipato dei modelli di questi ultimi anni. Se scegli una meta che non sia di altro continente, parti minimamente organizzato, avendo idea non dico di dove dormirai (orrore degli orrori) ma di che cosa vedrai, se viaggi armata di Michelin e non di Lonely Planet e soprattutto se pensi di non usare mezzi pubblici locali, meglio se pulmini sgarrupati con posto riservato fra la contadina dello Yucatan che porta le formaggette al mercato e l'ex corriere boliviano che rammenta i tempi che furono offrendoti un po' di vecchia roba buona, allora sei spacciato: finisci irrimediabilmente nella categoria del “turista”, il che, per certa gente, equivale alla peggiore delle ignominie. Parlo a ragion veduta, visto che fra poco mi toccheranno i racconti di viaggio degli amici avventurosi, quelli che si son programmati la vita al nano secondo (mi laureo-trovo lavoro-compro casa-mi sposo- me la godo un po'- faccio il primo figlio etc etc) e che concentrano nelle tre settimane di ferie l'intera fornitura annuale di emozioni. Mi aspetto una serie di emerite cavolate, dal “contatto con la cultura locale” alla perlustrazione di tutti i bagni della zona, perchè se magari non esiste un dio capace di risistemare le cose, quanto meno c'è Montezuma che si ricorda di loro. Per non parlare degli sguardi di commiserazione che mi vengono lanciati ogni volta, quando sentono che siamo andati in Europa e pure in macchina e non abbiamo preso neanche un tram. Stavolta, però, faremo eccezione. Perchè un cavolo di tram lo abbiamo preso, ma per girare a Nowa Huta non serve, a meno che non ci si rassegni a buttar via mezz'ora alla fermata, senza sapere cosa arriverà e dove ti porterà. E così, ce ne stiamo ciondolanti su una panchina semi divelta, con un sole a picco sulle nostre teste, senza che si scorga un'anima viva e, quel che è peggio, senza che si fermi il tempo: perchè entro mezzogiorno dobbiamo essere in centro, per l'apertura del Polittico della Cattedrale e caschi il mondo se me lo perdo.

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Alla fine, riusciamo miracolosamente a fare tutto: con il primo tram che passa ci portiamo ad un parcheggio di taxi e da lì arriviamo alla Chiesa di Giovanni Paolo II e poi in centro. In mezzo, tentiamo di imbastire una conversazione con il tassista che, appena sente che siamo Italiani, comincia con la solita trafila.
“Milano?”, butta lì, ma si vede che del nostro Paese conosce poco e niente
“No, Genova”, facciamo noi, con scarso successo.
Non la conosce, infatti, il che basta a dare la stura all'elenco delle meraviglie della nostra città, dai monumenti ai personaggi famosi: il Porto, la Lanterna, l'Acquario e il Genoa lo lasciano indifferenti, ma quando arriviamo a Colombo, si apre uno spiraglio. Attendiamo fiduciosi e alla fine vede la luce
“Berluscona! Bunga Bunga!”

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A proposito delle Lonely Planet di cui sopra: la Guida di Cracovia fa schifo, senza se e senza ma. Scarna, imprecisa, inesatta (certi indirizzi dobbiamo trovarli ancora adesso) e per giunta lacunosa, priva com'è delle informazioni principali, tipo gli orari di apertura e di chiusura delle attrazioni all'interno dei monumenti della città, il che, visto che qui si paga col sistema delle scatole cinesi e la biglietteria è una sola, è un dato fondamentale, molto più di quanto lo sia l'elenco di tutte le gallerie d'arte contemporanea e post moderna nella riqualificata periferia. Ma, si sa, noi siam turisti...

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La cattedrale di s. Maria è il simbolo indiscusso della città di Cracovia. Sorge su un lato dell'immensa piazza, subito dopo il Fondaco dei Tessuti, ma non c'è rischio che passi inosservata, con le sue torri asimmetriche che sono la sua principale peculiarità. Neanche a dirlo, esiste leggenda incorporata, con tanto di storia alla Romolo e Remo, visto che le torri furono costruite da due fratelli, l'uno dei quali uccise l'altro, una volta resosi conto del pasticcio combinato. A conferma della verità storica insita in questo racconto, c'è pure l'arma del delitto, un coltellaccio appeso all'ingresso del Fondaco, a conferma di come certe cose non abbiano confini- e il detto “parenti-serpenti” meno che mai.

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Leggende a parte, è probabile che le diverse altezze delle torri si spieghino con le diverse funzioni a cui erano destinate- di avvistamento l'una e di campanile l'altra. E' proprio su quest'ultima che, allo scoccare di ogni ora, viene suonato l'hejnal, una melodia ripetuta per quattro volte, una per ogni lato della torre e che si interrompe bruscamente, ogni volta. Dovrebbe ricordare l'infelice sorte di una sentinella uccisa dai Tartari nel 1241 proprio mentre stava suonando l'allarme, ocn questa melodia,  e per gli abitanti di Cracovia ha un'importanza tutta particolare. I suonatori sono assunti a spese del Comune, con regolare bando e si alternano sulla torre durante le 24 ore del giorno e della notte, per non privare la città della voce più commovente del suo passato.

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Per quanto sia bella da vedere, all'esterno, è oltre la soglia del portale d'ingresso che la cattedrale vi riserverà le maggiori sorprese, lasciandovi del tutto senza fiato. Anticipo subito che una delle sue principali attrattive è lo straordinario polittico che funge da pala di altare, aperto solo dalle 11.50 fino alle 16.00. Munitevi di biglietto nell'adiacente biglietteria e cercate un posto in prima fila, anche per non perdervi il cerimoniale di apertura, con tanto di suora nerboruta che fa tutto da sola, dall'invito alla preghiera durante l'apertura del polittico, alla bassa manovalanza, maneggiando ante da un quintale ciascuna come se fossero bastoncini dello shangai.


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Sì è fatta l'ora di pranzo e ci concediamo l'ultimo pasto in una “latteria”, locali tipici di Cracovia, esistenti sin dalla notte dei tempi e lasciati inalterati anche dal regime comunista, che ne aveva anzi apprezzato la semplicità degli arredi e la robustezza del menu, tutti piatti di sana e robusta tradizione locale, preparati espressi per gli appetiti degli operai e degli studenti, da sempre avventori di questi luoghi. Con la scusa che è l'ultima volta, ci rimpinziamo da scoppiare di pirogie, zuppe e salsicce, tanto che, un'ora dopo, arranchiamo infelici per le vie della città vecchia, alla ricerca delle ultime cose da vedere.

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Le strade sono sbarrate da una tappa del Giro di Polonia che si corre proprio nella Piazza e così inganniamo l'attesa tornando a passeggiare nel Castello, alla ricerca di questo drago sputa fuoco che scopriamo essere l'ennesima attrattiva a pagamento. La figlia, fortunatamente, non è più una bambina e quindi risparmiamo questa manciata di zloti per spenderne il decuplo in gioielli di ambra, che costano davvero pochissimo. Peccato che, al momento di pagare, io mi accorga che il prezzo della collana che mi sono scelta ha un 1 davanti: balbetto qualcosa alla cassiera, che all'improvviso dimentica l'inglese fluente con cui fino a poco fa ci ha illustrato tutte le meraviglie esposte nelle vetrine e che ora mi parla in polacco stretto, mentre la carta di credito viene inesorabilmente ingoiata nella fessura dell'infernale macchinetta. Ma è quella del marito e fra un po' è l'anniversario e più la guardo e più mi convinco che in qualsiasi modo abbiamo fatto un affare: perchè c'è qualcosa di impagabile che va sotto il nome di ricordi- e se questi rimandano a una città ricca di meraviglie come quelle che ci ha riservato Cracovia in questi giorni, lo sono ancora di più.
(segue)

Cracovia- diario di viaggio: le miniere del sale (IV giorno)

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Diciamocelo chiaro: rispetto a Cracovia, Praga è più bella. E, se vogliamo allargare il raggio, anche Budapest forse lo è. D'atronde, ci si sarebbe stupiti del contrario: a rendere bella una città concorre anche la sua storia e Praga e Budapest hanno dalla loro una posizione geografica più favorevole, oltre ad un tessuto urbano marcatamente influenzato dai fasti del lungo dominio asburgico, da cui Cracovia, per contro, fu appena sfiorata. Però, a Budapest sono stata 15 anni fa e non mi è ancora venuta voglia di ritornarvi, da allora. E a Praga so che tornerò, e magari pure a breve, ma solo perchè mio marito mal sopporta di essere l'unico della famiglia a non esserci stato. Mentre a Cracovia non vediamo l'ora di ritornare: dobbiamo ancora lasciarla e siamo lì che facciamo progetti, uno sguardo alle nostre agende, un altro ai "prossimi eventi"- e tanto meglio, se a breve.

Il fatto è che, a differenza delle altre due città, Cracovia ci è entrata nel cuore. Anzi, ad essere precisi, ci si è proprio distesa, occupandone ogni angolino, con i suoi colori, le sue atmosfere, la sua gente. "come si dice 'cosy', in Italiano?- continua a ripetere il marito, ogni volta che ci sediamo ai tavolini di un caffè o scambiamo due parole e tanti sorrisi con le persone che incontriamo. Cracovia è confortevole, intima, piena di calore e la sua vitalità si esprime proprio in questa cifra di un'accoglienza mai chiassosa, che sa coniugare alla perfezione un orgoglioso senso di appartenenza con il rispetto per gli stranieri che passano per le sue strade e le sue piazze. In qualsiasi posto andiamo, siamo accolti non come turisti, ma come ospiti graditi, con una familiarità sempre temperata dal garbo ed una forma che riesce sempre a trasmettere il piacere di averti incontrato. E' questo il vero segno distintivo di Cracovia- ed è per questo che ci torneremo.

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"Alla vostra destra, il balcone dove si affacciò Karol Wojtyla, alla sinistra la soglia che varcava tutti i giorni per andare nel suo studio, di fronte l'aula dell'Università dove studiò e dietro alle spalle il selciato che calpestava per andare in Chiesa". Esagerazioni a parte, dal vivo è peggio. Ovunque vi giriate, tutto vi parla di Giovanni Paolo II, nato ai margini di Cracovia (a Wadowice, città di minatori oggi meta di pellegrini, tanto che la casa natale del Papa è già chiusa per restauri) e che della città resse le redini della vita spirituale, dal 1964 all'elezione al soglio pontificio,con la grinta, la tenacia e l'entusiasmo che di lì a poco tutto il mondo avrebbe imparato a conoscere. Anche in questo caso, non sarebbe potuta andare in modo diverso: ogni città tributa vari onori ai propri cittadini illustri, anche quando non hanno raggiunto fama planetaria, figuriamoci quando capita di aver dato i natali ad un uomo del genere. Epperò, a differenza di quanto accade in altri luoghi, ogni qualvolta si esageri con le commemorazioni, a Cracovia non si prova mai fastidio:  molto dipende dalla purezza della fede dei Polacchi, non contaminata da suggestioni estranee di alcun tipo, meno che mai di natura economica (provate a cercare un santino con l'immagine di Giovanni Paolo II: non lo troverete, da nessuna parte); ma molto dipende anche dal vuoto lasciato dalla perdita di questo Papa, che qui si avverte più che altrove.

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Giriamo come pazzi, per tutta Stare Miasto, incantati dagli scorci, dalle vedute d'insieme, dal colore, dalla pulizia, dall'armonia che ci conquistano ad ogni passo: passiamo sotto portici medievali, in strade trafficate che sfociano in vicoli deserti, ci fermiamo ai banchi dei piccoli mercati delle piazze laterali, curiosiamo attraverso i vetri delle gioiellerie e fra le cianfrusaglie delle bancarelle. E non ci accorgiamo del tempo che passa e che oggi più che mai è tiranno. La visita alle miniere del Sale è fissata per il pomeriggio e quando sentiamo battere l'una siamo ancora in tenuta ferragostana, oltre che a pancia vuota. Decido per un pranzo veloce in "latteria", il locale più tipico di Cracovia, dove da tempo immemorabile operai, studenti ed avventori di passaggio gustano la cucina di casa a poco prezzo, ma la Lonely toppa ancora-e ci ritroviamo a girare come trottole, alla ricerca dell'indirizzo che non c'è. La creatura ha ripreso la litania, il marito ha perso la pazienza e quando stiamo per rassegnarci ad un panino al volo, mi viene l'illuminazione: "I pierogi!"- esclamo, sventolando la fida moleskine. dopodichè, aggiungo qualche parolina magica ("i migliori di tutta Cracovia" "solo indigeni" "una vera bettola") e in un attimo ci si arriva. A parte l'ultima indicazione (le bettole sono ben altro), tutte le altre informazioni si rivelano corrette: aggiungo qui il non trascurabile dettaglio delle porzioni pantagrueliche, per cui se siete in pausa pranzo un piatto solo per due può bastare: a noi tocca sacrificarci, mangiando tutto, ma intanto smaltiamo con la corsa veloce all'hotel, per cambiarci d'abito e partire, alla volta delle miniere del Sale.

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siete mai stati alle miniere di Salisburgo? O alle saline di Trapani? o a quelle di Cervia? Ecco, le miniere di Wieliczka sono completamente diverse. "Molto più che sale", avverte l'insegna nei pressi dell'ingresso- e con ragione: perchè quello che vi aspetta, una volta scesi i 64 piani di scale (e pure apiedi) ha davvero dell'incredibile. Un mondo sotterraneo scolpito nel sale, spesso dagli stessi minatori che, condannati a vivere quasi perennemente sotto terra, avevano reso meno gravose le loro giornate scolpendo statue e vere ed erigendo vere e proprie architetture. Su tutte, quella che lascia senza fiato è la Cappella di Santa Cunegonda (protettrice dei minatori), una chiesa ad un'unica navata, lunga più di 70 metri e larga quasi 20, dove tutto, dalle pareti alle gocce dei lampadari, è scolpito nel sale. Ci arriviamo quando la visita è quasi finita- e quello che vediamo ci lascia letteralmente senza fiato. 


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"Si sale in ascensore", avvisa la guida a metà percorso- e la vita mi sorride. ma  dopo un po', ghigna, una volta che vedo in quale trabiccolo hanno in mente di farci salire. Una specie di scatola di sardine, con tanto di doppia chiusura ermetica, la cui vistabasta da sola a frmi venire le palpitazioni. Io ho un po' di paura dell'ascensore da quando, da ragazzina, ci son rimasta chiusa dentro: ero con una mia amica e avevamo voluto provare a vedere che cosa sarebbe successo, se ci fossimo messe a fare i salti lì dentro, con l'ascensore in movimento. I pompieri non gradirono il nostro spirito scientifico e da allora se posso preferisco le scale. Ma stavolta siamo al 101esimo piano sotto terra e, per quanto convenga che l'apparizione di santa Cunegonda, una volta arrivati alla luce del sole, possa nobilitare il diario di viaggio, preferisco rassegnarmi al mio destino ed entrare nella trappola."Secondo te, cosa succede, se salto?" mi chiede mia figlia, riportandomi indietro di trent'e pass'anni. Più che l'espressione di terrore sul mio viso la fanno desistere gli altri compagni di avventura, visto che c'è a malapena spazio per respirare, figuriamoci per saltare. In ogni caso, in pochi secondi siamo su- e la vita ora mi sorride, per davvero

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Torniamo a Cracovia che è ora di cena e decidiamo di accontentare la creatura, prendendo salsicce e patate arrosto ai tavolini di una fiera. Lì accanto si esibiscono gli Sbandieratori di un paese vicino a Ferrara e , sulla piazza, un gruppo di reduci inscena uno spettacolo di canti militari. Arraffo un programma e dopo un po' siam lì che cantiamo come due deficienti (il marito è a debita distanza), rendendoci conto a brano finito che abbiamo letto le parole di quello successivo. Ma è l'ultima sera e anche se non son più le estati dei vent'anni, l'atmosfera è sempre la stessa: un velo di follia, a rincorrere gli ultimi istanti di una vacanza magica, in un'estate che non dimenticheremo.

(segue)

Cracovia- diario di viaggio: la città vecchia (IV giorno)

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La giornata inizia con le Lamentazioni: che non sono brani di preghiera tratti dall'omonimo libro della Bibbia, ma una serie di lagne una via l'altra della creatura che, puntuale come ogni anno, intorno al quarto- quinto giorno di viaggio, timbra il cartellino del "datemi-una-spiaggia-come-tutti-i-miei-amici". Stavolta ci delizia con un pezzo nuovo, "di stellati non ne voglio più", prendendosela con il ristorante di ieri sera e da lì a ritroso con tutti i posti in cui l'abbiamo portata negli anni, dove "bisognava star composti, vestirsi bene, parlare a bassa voce e non usare il cellulare a tavola".



Rispondo che le prime due clausole sono previste anche alla mensa di casa sua e scateno l'inferno (pare che  la categoria di "tutti-i-miei-amici" possa usare le sedie a mo' di triclinio, facendo del tavolo della cucina la sede operativa dello smistamento degli sms della giornata, "ma loro sì che hanno dei genitori intelligenti"). La salvano l'esperienza della consuetudine (la fase acuta dura poche ore) e le sette del mattino: a Genova, la provvidenza che sorveglia il nostro condominio ci ha dotato di vicini sordi, a Cracovia non si sa: e, nel dubbio, meglio dirottarla a far colazione, che con la bocca piena di cupcakes ci si lamenta peggio.

Cracovia Barbacane

Sono le otto del mattino e già fremo: nei diari di viaggio di chi a Cracovia c'è già stato ci si raccomanda forte e chiaro di essere all'ingresso della biglietteria del castello con ampio anticipo, rispetto all'apertura, causa un numero di ingressi limitato, e comunque insufficiente a soddisfare tutti gli aspiranti visitatori in coda. "alle otto è già tardi", aveva scritto qualcuno e tanto è bastato per mettermi in uno stato di agitazione da quel momento in poi. Tant'è che, nonostante la breve distanza, prendiamo pure un taxi per arrivare prima. E quando finalmente entriamo, è come essere nel deserto. Non c'è un tubo di nessuno, neanche a guardarlo col binocolo. "Sta' a vedere che è chiuso"- penso, mentre mi affretto verso la biglietteria. Tutto regolare, invece- e non dobbiamo neppure attendere troppo, visto che nel giro di mezz'ora dovrebbe funzionare tutto quanto. E così, mi rassegno felice a una fila che non c'è, approfittando dell'attesa per aggiornare il diario di viaggio, mentre il marito e la figlia scattano foto qua e là. 


Il centro storico di Cracovia consta di due nuclei: di qui, il Castello, sulla collina del Wawel, di là il centro storico vero e proprio, svluppato intorno alla grande piazza del mercato. Due sono le chiese principali, la cattedrale, all'interno del castello e la Basilica di Santa Maria, sulla piazza della città vecchia, secondo una struttura urbanistica tipica di molte città dell'est, Praga su tutte. Rispetto alla capitale ceca, però, è tutto in scala ridotta e, relativamente al castello, di minore importanza sotto l'aspetto artistico, se non anche architettonico. Purtroppo, il criterio della visita è la parcellizzazione, nel senso che si paga l'ingresso non solo ad ogni singolo monumento, ma in certi casi anche ad ogni singola sala, il che, ancor prima di irritare, confonde. Noi sapevamo di non dover perdere gli Appartamenti di Stato e gli Appartamenti Reali, per esempio, ma nessuno ci aveva informato che anche alcune sale della cattedrale sono a pagamento: morale, una volta arrivati sulla soglia, era impossibile tornare indietro a fare i biglietti (la fila si è formata pochi minuti dopo il nostro arrivo e quando siamo usciti arrivava fino ai piedi della collina): e così, ci siamo dovuti accontentare della "spesa" fatta alla cassa principale, cercando di non prendercela più di tanto "che intanto abbiam detto che ci ritorniamo, no?"


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Sempre in riferimento ai diari di viaggio, una loro costante, a proposito degli appartamenti del castello, era stato l'impietoso confronto dei loro interni con quelli dei castelli italiani. "Carini, ma nulla di che" era il giudizio finale di molti viaggiatori, dopo aver passato in rassegna gli arredi delle varie sale con le bellezze d'Italia e da questo punto di vista, come è ovvio, non si può che convenire. Solo che noi, da tempo immemore, abbiamo smesso di metterci in questa prospettiva: non solo perchè, di questo passo, finiremmo per non muoverci da casa ma anche perchè l'esperienza "sul campo" ci ha insegnato a guardare con gli occhi del popolo che di queste opere è stato l'ispiratore e l'artefice. in questo modo, scopriamo ogni volta cose nuove, che ci piacciono e ci emozionano e-soprattutto- ci parlano in modo vivo e personale di una cultura che, tanto o poco che sia, è comunque diversa dalla nostra: e tanto basta per farci apprezzare i posti dove siamo e le bellezze che li circondano. 


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Gli Appartamenti Privati e quelli di Stato non si sottraggono a questa regola: di conseguenza, alla fine della visita, siamo davvero soddisfatti. Dei primi, ci sono piaciuti i fregi alle pareti, specie quelli "edificanti", in cui, col pretesto di esaltare le virtù, si indulgeva a rappresentare tutti i vizi. La pittura del Nord è molto più realistica e disinibita di quella italiana, complice una maggiore distanza, non solo logistica, dalle influenze della Chiesa cristiana prima e cattolica poi ed anche la cattolicissima Polonia,almeno nelle stanze private, si scopre più sensibile al fascino del realismo che non a quello dell'allegoria. In più, il pittore era pure bravo, per cui la resa di certi gesti, certi sguardi e certi dettagli è davvero efficace e rivela un gusto per il ritratto che per immediatezza ed impatto si avvicina al bozzetto ed alla caricatura. Ci sono poi le pattezzerie originali, in cuoio intarsiato, che ancora rivestono le pareti di molte stanze e che, qui più che altrove, restituiscono ai visitatori di oggi le atmosfere delle ambientazioni di allora. 

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Degli Appartamenti di Stato, invece, ci è piaciuta sommamente la guida. Abbiamo avuto la fortuna di incappare in una deliziosa signora polacca, col pallino dei gabinetti. Non so se fossero tappe obbligate del tour, i cessi reali dalle origini ai giorni nostri, ma a noi non ne è sfuggito uno. Anche perchè hai voglia a dir di no, di fronte all'orgoglio con cui la signora ti descriveva la vasca da bagno del primo ministro o il buco di pietra dove si erano appoggiati i sacri lombi di generazioni di re e regine o i fregi di una porta dietro la quale- indovinate un po'- un tempo "there was a wonderfull toilet". "Tappati il naso e pensa alla Polonia" è stato quindi il nostro motto, grazie al quale abbiamo resistito impavidi fino alla fine- e pure mantenendoci seri, per tutto il tempo. 

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"C'era una volta un drago": così ci piace pensare che inizino tutte le favole per i bambini di Cracovia. Perchè il drago è il simbolo della loro città e la drago è legata la leggenda più famosa della città, cheà racconto alla creatura mentre passeggiamo per i viali del castello, alla ricerca di una toilet che non sia patrimonio di stato. 
"allora, c'era una volta un drago- o meglio, c'era una volta un re, che si chiamava krak e aveva una figlia che si chiamava..."
"eroina"
Da lì in poi, ha provato a giustificarsi, dicendo che sapeva già che avrebbe sposato un eroe e quindi per forza di cose, la moglie dell'eroe è l'eroina e che "ora finisce che ti lamenti perchè sono intelligente": stavolta, la salvano i bagni, che finalmente appaiono all'orizzonte, quando ormai si è fatto tardi per tutto, anche per il seguito del racconto. Che comunque, finisce che l'eroe sposa la figlia del re. Come aveva predetto la creatura, insomma...
(segue)

Cracovia, diario di viaggio: Auschwitz- Birkenau- Czestochowa (seconda parte)

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Anche se non passa un nanosecondo senza che ci diciamo quanto sia bella questa città e quanto siamo felici di essere qui, Cracovia è stata una seconda scelta. In principio, infatti, fu San Pietroburgo, sulla scia dell'infatuazione per Dostoevskji che colse la creatura giusto un anno fa. Vagavamo per la brughiera scozzese e lei, di continuo, stava a ricordarci che non era lì che sarebbe voluta venire: l'alternativa a trasformarmi in una moderna Medea era quella di prometterle che l'anno prossimo l'avremmo accontentata e così sarebbe stato, se non fossimo incorsi in questo annus horribilis che, per molti mesi, ci ha impedito di fare programmi di sorta.


Abbiamo smesso di vivere alla gornata alla fine di giugno e verso metà luglio abbiamo iniziato a pensare che, forse, una mini vacanza ce la saremmo potuti permettere. Non la Russia, però: troppo poco tempo a disposizione, troppa burocrazia a rendere impossibile un viaggio alla mordi-e-fuggi come quello che ci saremmo potuti concedere. Il marito aveva proposto Berlino, ma la creatura aveva messo i musi: " Se non può essere San Pietroburgo, allora andiamo a Cracovia", aveva detto, ricordando l'altra meta, sempre in programma e mai raggiunta. E così, l'abbiamo accontentata e il resto è la storia che leggete qui, con una piccola postilla, confessata solo a cose fatte: anch'io volevo andare a Cracovia. Perchè volevo andare a Czestochowa.

Pur essendo cattolica- o, per certi versi, proprio perchè sono cattolica- non son tipa da santuari. Ne avrò visitati un'infinità e, a parte rarissime eccezioni, ogni volta ho dovuto constatare che certi pellegrinaggi non giovano alla mia spiritualità, anzi: fatemi ancora vedere un banchetto che vende sciarpe che inneggiano alla Madonna o un San Francesco in forma di barometro che cambia colore a seconda del tempo per trasformarmi in una sorta di incredibile Hulk alle crociate, con tanto di colorito verdino e cordoni del collo che sembrano gomene.
Non mi sono emozionata neppure a Santiago de Compostela, in mezzo a pellegrini sponsorizzati, a tessere vidimate che neanche fossero un Gronchi rosa, a torte con le ali e a conchiglie in pura plastica, con tutta che ero partita animata dalle migliori intenzioni. Ma stavolta avevo qualcosa da chiedere- e di quelle così importanti che da casa proprio non si può: e qualcosa mi diceva che Czestochowa sarebbe stato il posto giusto

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Usciti da Birkenau, avevamo chiesto al nostro autista di fermarsi al primo chiosco sulla strada: di tempo per un pranzo vero e proprio non ce n'era, ma il solito panino al volo ci sta. Solo che dobbiamo avere qualche difetto di comunicazione, perchè con tutta che ci spertichiamo in dichiarazioni d'amore per le salsicce polacche, lui ci scodella prima davanti a un Mc Donald e poi ad un autogrill. Il rifiuto si impone - e così, arrivati a Czestochowa, decidiamo ancora una volta di sacrificare ai bisogni dello spirito quelli della carne, fiondandoci dritti al primo chiosco che ancora sfrigola, nonostante l'ora tarda. 

Prima di partire, una cara amica mi ha chiesto di accendere una candela anche per lei, aggiungendo alla richiesta un'offerta in denaro. Pare che sennò non funzioni, mi dice ridendo e tanto basta perchè io venga colta dall'ansia di dimenticarmelo. Commetto la leggerezza di dirlo al marito e siglo così la mia condanna: "Uh-uh, Carola, la mamma si è data al commercio di indulgenze" è il minimo che mi becco, Simon mago e miseri seguaci compresi.


Entrati nel Santuario, però, di simon Mago non c'è traccia. E neppure di bancarelle, di gadget, di immaginine o di rosari. Non ci sono neppure le candele e le cassette per le offerte. Ma solo gente che prega e che canta e che sorride. Davanti all'icona della Madonna Nera si susseguono messe a ripetizione e tutti che partecipano con una devozione che è fatta di semplicità e di gioia. Stento a credere a quello che vedo- e dopo un po', finisco per essere contagiata anch'io da questa atmosfera, da questa fede che è fatta di fiducia e di abbandono, a quel "non abbiate paura" che riecheggia in ogni immagine, in ogni canto, in ogni pietra di questo santuario: niente sembra impossibile, tutto sembra a portata di mano, anche le richieste più assurde e improbabili come quella che ho in mente io e che formulo in silenzio, stringendo forte la mano di mia figlia, a sugellare un momento che nessuna delle due dimenticherà tanto facilmente.


Częstochowa

Ovviamente, non mi sono dimenticata della candela che devo accendere per la mia amica. Il problema, però, è che qui candele non ce n'è. Inizio a chiedere un giro (e come si dice "candela", in polacco), errando per tutti i meandri del santuario, fino a quando non le trovo: è un'unica struttura, oltretutto piccolissima, ed accanto c'è una cassetta per le preghiere che i singoli fedeli scrivono alla Madonna. Con tutta che non c'è niente da capire, riesco lo stesso a far confusione e infilo l'offerta nella buca delle preghiere, con tanto di sforzi annessi per far entrare i soldi in una fessura che, evidentemente, non è stata pensata per quello. Ma tant'è: chiedete all'addetto alla manutenzione della macchina del caffè dell'ufficio, quante monetine trova nel posto sbagliato ogni volta che passo di lì e non vi stupirete più di niente. Ovviamente, realizzo di essermi sbagliata quando ormai è troppo tardi. La creatura è piegata in due dal ridere, il marito attacca con un'invocazione supplementare e io decido su due piedi che ho appena inventato la posta prioritaria per le preghiere- e ditemi voi se non è una grande idea.


czestochowa

Il nostro autista è un tipo di poche parole ma simpatico. Si vede che la cosa è reciproca perchè, sulla via del ritorno, ci propone una devizione nel Parco nazionale intorno a Cracovia, noto come "la Strada dei Nidi delle Aquile", per le rovine degli antichi castelli che sorgevano in posizione strategica sugli speroni delle rocce tutt'intorno. Riusciamo a vederne uno, anche se dall'esterno e quando rientriamo in hotel siamo stanchi ma felici: mai avremmo immaginato di poter condensare così tante emozioni in un unico giorno. Ne manca ancora una, all'appello: la cena al Wierzynek, il ristorante più famoso di Cracovia e della Polonia intera, dove ci concediamo una sosta coi fiocchi ( e senza foto: su questo punto, il marito è irremovibile), fino a tarda sera. Rientriamo distrutti e per un attimo penso di puntare la sveglia un'ora dopo. Ma poi penso a cosa ci aspetta l'indomani e resisto alla tentazione. Chissà perchè...

(segue)

Cracovia, diario di viaggio: Auschwitz- Birkenau- Czestochowa (prima parte)

czestochowa

Due sono le dannatissime abitudini che ho contratto, negli anni, in materia di viaggi. La prima, ahimè, è la programmazione. Sarà che son figlia d'arte, sarà che per anni ho lavorato anch'io in questo settore, sarà che, mai come quando varco i patri confini, penso sempre che non è detto che mi ricapiti più un'altra occasione, sta di fatto che, in qualsiasi luogo decida di andare, voglio arrivarci preparata. Guai infatti, se una volta a casa mi dovessi accorgere di aver trascurato posti interessanti, che magari si trovavano proprio dietro l'angolo: le volte in cui è successo son precipitata nella disperazione più nera e da allora cerco di correre ai ripari: compro tutte le guide che trovo, leggo diari di viaggio e, soprattutto, cerco di trovare un punto di incontro fra il tempo e lo spazio, visto che il primo mi manca di continuo- ed in vacanza ancora di più.

La seconda dannatissima abitudine, forse ancora peggiore della precedente, è che non riesco a porre un limite alle cose da vedere. Questo è un retaggio paterno, visto che da bambine ci siamo ritrovate ad aver girato  l'Italia a suon di "già che siamo qui, potremmo andare lì" e ora che sono cresciuta ho raccolto a piene mani questa eredità. Per quanto mi sforzi di mettere dei paletti, spunta sempre qualcosa di assolutamente imperdibile, che sta oltre. 
I dintorni di Cracovia, quindi, non hanno fatto eccezione: le mete segnate erano tre (i campi di concentramento, il santuario di Czestochowa e le miniere del sale) e tre sarebbero stati quelli che avremmo visitato. E il come, era un trascurabile dettaglio.

cracovia

Se non che, all'approssimarsi della partenza, ancora non avevo trovato nessuno disposto ad accorpare in una sola giornata Auschwitz e Czestochowa, nonostante Cracovia pulluli di guide e gite organizzati. D'altronde, come mi spiegavano a mano a mano che collezionavo rifiuti, non c'è richiesta per una sfacchinata del genere; chi mai potrebbe intendere "tour" come l'abbreviazione di "tour de force"? Ma quando stavo già per capitolare su un auto a noleggio, ecco che spunta fuori l'offerta che cercavo: il costo è tarato sulla proposta (entrambi folli), ma in ogni caso ne varrebbe la pena. E così, all'alba delle otto e mezza, siamo spaparanzati su un mini bus tutto per noi, non prima di aver timbrato al cupcakes corner, che se camminiamo solo la metà di ieri, hai voglia a bruciar calorie....

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La campagna polacca è diversa da tutte quelle che abbiamo visto finora: è piuttosto incolta, interrotta spesso da brevi tratti di bosco, con poche case ai lati della strada, senza nessun significativo agglomerato. Le strade, in compenso, sono perfette e il traffico scorre veloce, tanto che in meno di un'ora raggiungiamo la nostra prima meta

Auschwitz


Sebbene non siano ancora le dieci, ad Auschwitz c'è tantissima folla. Noi finiamo col ritrovarci sempre in mezzo ad un gruppo di soldati israeliani che seguono una visita guidata. Io non l'ho voluta, nel timore di non riuscire a reggere tempi di permanenza troppo lunghi e, per una volta, ho fatto una scelta azzeccata. Crollo a metà del secondo blocco e da lì in poi è solo un guardarmi la punta dei piedi- incapace di reggere la vista di  qualsiasi altra cosa, lì intorno e un po' più in là. Penso a mia figlia, che prosegue la visita con mio marito, scattando foto in silenzio e leggendo avidamente la guida e mi chiedo se abbiamo fatto bene, a portarla qui. Temo che soffra, che si impressioni, che provi qualcosa di simile a quello che sta capitando a me- ma mai come in questo momento so che è stata la cosa giusta da fare. Nelle mie lacrime, infatti, non c'è solo la tragedia dell'Olocausto e delle sue vittime: c'è anche mia nonna, la mia vera memoria storica, il filtro attraverso cui ho conosciuto tutte le brutture della Seconda Guerra Mondiale, il modello di un insegnamento etico che mi porterò dietro per tutta la vita. L'ho rivista negli sguardi fieri e dignitosi delle foto segnaletiche del reparto donne, tutte intorno ai suoi anni, e ho pensato che lei avrebbe avuto la stessa dignità, la stessa fierezza, lo stesso coraggio: che poi son quelli che mi ha tramandato nelle sue storie di guerra e insegnato nella sua esistenza, rendendo esemplare, ancor prima che reale, un impegno in nome di quei valori che, sin da quando ero bambina, si sono arricchiti di nomi, volti, storie che finivano bene qualche volta e qualche volta no e che da allora, hanno sempre fatto saltare il banco di conti e tornaconti, di qualsiasi tipo.

Auschwitz

Oltre a ciò, c'erano i racconti corali degli anziani e delle testimonianze vive di chi in guerra c'era stato-e magari anche in campo di concentramento - e veniva a parlarcene a scuola, con noi bambini che pendevamo dalle sue labbra e la maestra attenta a che non ci perdessimo una parola di quanto ci veniva raccontato. Mia figlia, questi insegnamenti, non li avrà: la memoria dei miei genitori non arriva fin lì, mia nonna è stata l'ultima di quella generazione ad andarsene e la scuola, beh, lasciatemelo dire:  la scuola  è una vergogna. Alzo gli occhi e la guardo, da lontano, sollevata in punta di piedi per leggere un pannello, al di sopra delle teste degli altri visitatori e  il cuore mi si riempie di tenerezza e di orgoglio. Io ho avuto dei filtri, ad attenuare l'impatto, lei è a contatto diretto con il lato più turpe del male dell'animo umano. Ma so anche che da oggi, per lei, non ci sarà bisogno di moniti a ricordare o di segnacci rossi sui libri di storia, seguiti da colloqui furibondi con i suoi insegnanti: le basterà quello che ha visto, per sempre.


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Auschwitz è il nome che i nazisti diedero ai campi di concentramento che costruirono intorno al paese di Oswiecim, annesso al Reich sin dal 1939 e da quel momento ribattezzato in questo modo, sull'onda della pronuncia tedesca di un nome polacco. Nessuno all'epoca avrebbe potuto immaginare che nel giro di pochissimi anni questo nome sarebbe diventato sinonimo prima di terrore, negli anni della guerra, e poi di orrore: il paesaggio circostante, infatti, è quanto di più placido e ameno ci si possa immaginare. D'altro canto, fu proprio per questi motivi che Rudolf Hoess scelse questi luoghi come sede di un nuovo campo di concentramento per i prigionieri, complice anche la presenza di caserme abbandonate, risalenti alla prima guerra mondiale: nessuno, dall'esterno, avrebbe mai potuto sospettare di nulla. La prima ondata di prigionieri arrivò nel 1940 e contava 728 polacchi. Successivamente, il campo arrivò ad ospitarne una media che oscillava fra i 13000 e i 16000, con un picco di 20000 nel 1942: si trattavi di Ebrei di tutta l'Europa, di cittadini  polacchi, di prigionieri politici, di zingari e anche di omosessuali, tutti accomunati dallo stesso destino di sofferenza e di morte. Nel giro di soli due anni si rese quindi necessaria l costruzione di un secondo campo e poi di un terzo, tanto che, alla fine della guerra, con il nome di Auschwitz si intendeva un complesso di tre luoghi distinti: Auschwitz 1, lo Stammlager, vale a dire il campo madre; Auschwitz II- Birkenau, adiacente alla stazione di arrivo dei convogli dei prigionieri, ed Auschwitz III, nel vicino paese di Monowice. Oggi si visitano solo i primi due, che sono stati trasformati in veri e propri musei: gran parte delle costruzioni è rimasta intatta, qualcosina è stato riscostruito, dopo che i Nazisti tentarono di distruggere quanto più possibile, per non lasciar tracce dei loro crimini. In certi casi, come a Birkenau, si è deciso di non ricostruire, lasciando che l'evidenza parli da sè, attraverso le enormi macerie dei due forni crematori fatti saltare in aria dalle SS, nella loro ritirata.

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La visita ha inizio di solito da Auschwitz 1 e porta via almeno due ore, intense. Le visite guidate durano ovviamente di più e sono a pagamento, , mentre l'ingresso è gratuito. Si possono scattare fotografie e, anche se l'affollamento è notevole, non ci sono limiti di sosta nelle singole sezioni del Museo. L'unica cosa richiesta è, ovviamente, un atteggiamento rispettoso delle vittime morte in quei luoghi e, a parte il solito cretino che ha lasciato un autografo sui muri della camera a gas, l'invito è rispettato. Entrambi i campi aprono alle otto e per raggiungerli, da Cracovia, ci si impiega circa un'oretta. Noi siamo arrivati alle 9 e mezza e, come vi dicevo, c'era già parecchia folla, ma niente in confronto a quando siamo usciti: se riuscite ad arrivare ancora prima, è meglio.

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Birkenau (in polacco Brzezinka) dista 3 km circa da Auschwitz ed è l'altra tappa obbligata di questo viaggio. Sono i resti del campo che si estendeva proprio a fianco della stazione di arrivo dei deportati e, se possibile, offre una testimonianza ancora più agghiacciante della precedente, a cominciare dalla vastità dei suoi spazi: qui, infatti, venivano ammassati centomila prigionieri, in baracche che poggiavano direttamente sulla palude, in condizioni igieniche allucinanti, ulteriormente peggiorate dall'enorme quantità di topi. E' a Birkenau che i Nazisti concentrarono il maggior numero degli impianti di sterminio, con 4 crematori, 4 camere a gas permanenti e altre due provvisorie, in fattorie poco distanti, oltre che fosse e roghi.

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Anche se mi sono ripresa, quando arriviamo a Birkenau sono comunque ancora scossa. Mia figlia è stanca e nessuno ha voglia di discutere su quello che prima ci sembrava l'argomento del giorno (cosa vedere, come e in quanto tempo) e che adesso, francamente, ci pare risibile. Decidiamo di arrivare fino in fondo alla ferrovia, dove si erge un monumento alla memoria delle vittime, ai lati delle rovine dei due forni crematori, tralasciando la visita ai blocchi poco distanti. Il sole è alto nel cielo e un'occhiata agli orologi ci dice che stiamo camminando senza sosta da quasi quattro ore. In effetti, siamo stanchi e la prossima meta è ancora lontana. Torniamo al nostro austista, pronti a ripartire sotto un sole che, dopo qualche tentennamento, ha deciso di fare sul serio.
Czestochova ci aspetta.

Auschwitz- Birkenau

Se Dio esiste, deve chiedermi perdono
(anonimo, Mathausen)


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